Il fronte della Vojussa. I Balcani sono una zona nevralgica e come in tutti i conflitti c’è un volto democratico garante a livello internazionale e allo stesso tempo, sfruttatore di potenziali ricchezze di quel paese, per la propria penetrazione economica.
Gli Austriaci, fermati dall’arrivo delle truppe italiane a Durazzo avanzavano verso Vlore (Valona). Tra febbraio e marzo del ’16, nonostante l’opposizione di Cadorna, che continuava a ostacolare questo sforzo bellico in Albania e già aveva destinato un’intera divisione, la 35^ del Generale Petitti di Roreto, a Salonicco, vennero create nuove brigate di fanteria9, richiamati molti uomini10 e un intero corpo d’armata, composto da tre divisioni di fanteria più le batterie da montagna tratte dal fronte alpino, al comando del generale Piacentini, fu inviato in Albania.
Soldati e muli furono tutti convogliati a Taranto e di lì imbarcati per l’Albania: l’azione umanitaria lasciò il posto ad un vero e proprio intervento militare.
Il primo vero scontro avvenne a Durazzo, dopo che si era concluso l’imbarco dei Serbi.
Prevedendo l’attacco degli Austriaci supportati da bande albanesi, il 14 febbraio 1916 il Comandante Ferrero, aveva chiesto il permesso di sgombero al suo superiore, il tenente generale Emilio Bertotti. Due giorni dopo, mentre nella rada di Durazzo erano pronti quindici piroscafi da carico, due navi ospedale e due cacciatorpediniere a difesa della ritirata degli Italiani, Ferrero ricevette un telegramma nel quale Bertotti sosteneva che la minaccia austriaca era inferiore al previsto e quindi «codesta brigata ha compito ben definito istruzioni inviate Ministero e non deve preoccuparsi rientrare qui integra, ma assolvere bene il suo compito»Fu un disastro. Una grave forma di gastroenterite colpì molti sodati; gli Austriaci, convinti che gli Italiani stessero partendo erano pronti all’attacco e nella notte, dopo una furiosa battaglia, il nostro esercito fu costretto alla resa. All’alba salpò da Durazzo in fiamme, con un bilancio pesante: rimasero sul campo 840 uomini, cannoni, munizioni, viveri e furono abbattuti 900 muli. Dopo l’episodio di Durazzo vi fu un riordinamento delle forze e da parte italiana si pose il problema di stabilire quanti uomini destinare in Albania, a cui fece seguito un serrato scambio di lettere e telegrammi fra il Comando supremo e i ministeri della Guerra e della Marina.
Gli italiani si schierarono sulla riva sinistra del fiume Vojussa, a Nord-Est di Valona.
Il fiume rappresentò il logorio di una guerra fatta di poche battaglie, ma molte vittime su un terreno infestato da paludi e malaria, malattia che colpival’80% della popolazione determinando un tasso di mortalità molto alta: la vita media del popolazione albanese era sui quarant’anni.
Nessuno dei due eserciti giunse mai alla foce: la natura del terreno, il fango e gli insetti poterono più di qualunque arma.
Nell’estate del 1916 la Strafexpedition aveva richiamato velocemente sugli altipiani vicentini due divisioni, la 43a e la 44a e il 55o reggimento che, imbarcatosulla Principe Umberto, fu silurato l’8 giugno nel canale d’Otranto. L’esercito italiano rimase comunque sia sul fronte albanese che quello macedone, suun percorso di oltre 50 Km distribuito lungo il corso del fiume Vojussa fino al lago di Ochrida, al confine con la Macedonia con l’intento di ricongiungersiall’Armée d’Orient e alla 35a divisione del generale Petitti, creando una linea fra l’Adriatico e le truppe anglo-francesi.
Mentre il conflitto mondiale resta sullo sfondo inizia la conquista da parte dei nostri soldati di un territorio geograficamente isolato, appena uscito dalpesantissimo giogo ottomano e teatro bellico di una grande guerra molto lontana e di una guerra balcanica molto più vicina.
Gli Skipetari, così propriamente si chiamavano gli Albanesi del Sud, mostravano tutte le caratteristiche di una popolazione in gravi condizioni di sottosviluppo, un’economia basata sulla pastorizia e la coltivazione del tabacco.
Le fotografie dell’epoca ritraggono un miscuglio di ricordi greci e turchi, di oracoli, di bazar, di moschee e minareti. Certamente, le vette altissime delTomor degradanti in verdi vallate e in foreste cupe, i burroni e le gole da cui scendono i fiumi maggiori, il Drin nero e la Voiussa, la superficie dei laghida quello di Scutari a quello di Ochrida avranno ricordato ai nostri soldati orizzonti simili a quelli italiani, ma prevaleva su tutto una cultura remota eun mondo immobile.
Nel corso del 1916 il XVI Corpo d’Armata, con l’arrivo di nuove truppe, raggiunse la forza di 100 mila uomini e i nostri soldati, partendo da Tepeleni,occuparono, sgombrandole dai Greci, le città albanesi vicine al confine fissato dalla conferenza di Londra: Delvino, Premeti, la costa da Porto Palermo aCapostile, il porto di Santi Quaranta, località strategica e porto militare dell’Intesa e, punto di partenza della via che, per Kelibaki, Kelisopetra, Lijaskoviki,Ersek, Koritza, conduce a Florinà, in Grecia e a Salonicco nella regione della Macedonia. Il 28 giugno 1916 alcune divisioni italiane si impossessaronodella regione montuosa di Chimara; in settembre entrarono a Tepeleni e Arigirocastro.
La nuova base di Santi Quaranta riuscì in seguito di grande vantaggio all’Armée d’Orient perché le assicurò – venuta in possesso dell’Italia la rotabileper Koritza e Monastir – più facili e sicure comunicazioni. Gli Austriaci avevano occupato la parte settentrionale dell’Albania e gli Italiani la parte a sud, gli Albanesi s’erano fatti mercenari dell’una o dell’altra parte: il loro governo praticamente non esisteva.________________________________________________________________Si narra che ” Per quei quattro sassi”fosse il commento di Vittorio Emanuele III, quando nel 1939, la Costituente albanese, gli offrì la Corona d’Albania.
Questo lavoro prende spunto dalla consultazione di documenti di un archivio privato appartenuti a un fante arruolato nella Brigata Tanaro e sbarcato in Albania nel 1916. La ricerca sarà pubblicato ogni settimana.Il 20 ottobre torniamo con la quarta parte: In Macedonia
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