Kosovo: Storie di Visti (quasi) vissuti
Mitrovica, Repubblica del Kosovo. Non troppo tempo fa.
Bevevo spesso caffè seduto ai tavolini del bar osservando quella moltitudine di persone che ogni sera invadeva il ‘boulevard’.Mi perdevo nei volti e ne immaginavo le storie. Lulzim era tra quelli. Più che la sua storia – una tra le tante, le troppe, in un mare di racconti inascoltati – a colpirmi fu il nostro incontro. Era una nottata alquanto movimentata: Trepça (la squadra di basket locale) aveva appena vinto il campionato. Entrai nel primo bar sulla strada per assaporare un po’ di quell’estasi collettiva. Lulzim faceva il cameriere. Era nervoso quella sera, l’espressione sul suo viso trasmetteva ciò che i movimenti nascondevano. Domandai un caffè e fu proprio lui a servirmi. Dopo aver preso l’ordinazione borbottò qualcosa in italiano. Erano settimane che non udivo parole familiari, a parte sporadiche telefonate con i miei genitori. La cosa mi fece sorridere nonostante ciò che avesse detto non si addiceva esattamente ad un cameriere. “Grazie” risposi. Lulzim rimase per un attimo perplesso, poi sorrise. Iniziò a domandarmi senza sosta il perché, il come ed il quando fossi arrivato in città. Era su di giri, come fosse la prima volta che vedeva uno straniero. Mi supplicò di aspettare fino a che il turno di lavoro non fosse terminato. Non capitava spesso di incontrare italiani senza uniforme seduti a tavolini del bar.
Lulzim era un bravo ragazzo, glielo si leggeva in faccia: modi educati, gentile, amichevole. Aveva appena compiuto venticinque anni la sera che lo incontrai, gli ultimi dei quali ‘sprecati’ in quel bar che odiava più di una prigione. Ma così stavano le cose. Era cresciuto in una famiglia benestante, almeno questo prima della guerra. Suo padre e sua madre si erano conosciuti durante le grandi manifestazioni di piazza degli anni ’80. Lui figlio di un minatore e di una maestra di scuola elementare, lei proveniente da una famiglia molto religiosa. Il matrimonio fu uno dei pochi bei ricordi di quegli anni.
Lulzim si interruppe distratto da qualcosa; fuori dal bar, dall’altro lato della strada, passava un ragazzino a torso nudo con attorno al collo legata una bandiera raffigurante l’aquila albanese, nera su sfondo rosso. Se c’era una cosa che odiava più di quel bar erano le bandiere che tappezzavano la città. Tutto quel sentimento nazionale, traboccante da ogni cosa, gli dava allo stomaco. Quella era la libertà per cui molti avevano combattuto e tanti erano morti: una bandiera. Come era misero l’uomo, che di così poco si accontentava e nei suoi simboli si crogiolava. Intanto loro vivevano a Mitrovica, la città del ponte, la città divisa, città dove i suoi stessi cittadini si erano dimenticati che forma avesse. Dove non si poteva attraversare il ponte per paura poi di vedere che, in fondo, la città vista dall’altro lato del fiume non era così diversa. Vivevano in un paese dove non esisteva il diritto al lavoro, allo studio, ad un futuro degno del cimitero sul quale camminavano. Era stanco di tutto quello. Avrebbe voluto fare ciò che ogni ragazzo della sua età a Roma, Parigi o Berlino sognava: viaggiare, conoscere, innamorarsi.
Mi domandava continuamente dove fossi stato durante i miei viaggi, mi chiedeva di descrivergli minuziosamente i luoghi che avevo visitato come se anche lui potesse vederli. Gli si illuminavano gli occhi ogni qual volta usavo la parola ‘mondo’. Si ricordava di quando era bambino: ogni settimana i suoi genitori lo portavano fuori città per la tradizionale gita domenicale. Posti che non riusciva a ricordare con esattezza ma che sembrava essere certo della loro bellezza. Ogni tanto qualche particolare gli tornava alla mente; pezzi di memoria che lo aiutavano a convincersi che non era sempre stato così, e lo aiutavano ad avere speranza che un giorno qualcosa sarebbe cambiato.
Poi venne la guerra e tutto diventò d’uno tratto più grigio e triste. Lulzim e la sua famiglia furono costretti a lasciare la città ed a rifugiarsi prima in un campo profughi in Albania e poi in Italia dove avrebbero passato i cinque anni seguenti. Fu lì che Lulzim imparò l’italiano.
S’innamorò dell’Italia, della sua storia, della sua cultura, ed un giorno, aveva giurato, sarebbe tornato a farle visita. Portava sempre con sé un Pirandello o un Calvino che nei momenti di pausa lo aiutavano a scaricare i nervi e lo trasportavano in qualche luogo lontano. Presto, mi disse, avrebbe avuto i soldi necessari per andarsene, almeno per un po’. Avrebbe lasciato il lavoro e si sarebbe imbarcato sul primo aereo diretto per l’Italia. Era questione di mesi.
Ma non andò esattamente così.
Rincontrai Lulzim qualche settimana dopo. Aveva una cera orribile e la vitalità che lo aveva caratterizzato al nostro primo incontro sembrava essere sparita. Mi raccontò di essere andato al Consolato italiano a Pristhina per chiedere maggiori informazioni riguardò la richiesta per il visto. Ottenne due pagine in cui erano elencati tutti i documenti che ogni singolo uomo e donna residente in Kosovo doveva presentare per la richiesta. Mi fece vedere la lista. Lessi, in ordine: Passaporto (validità di almeno sei mesi), domanda per il visto interamente compilata (Allegato A), due fototessere, assicurazione sanitaria, certificato famigliare e di nascita, contratto di lavoro (se studente, certificazione che lo dichiari o equivalente lettera da parte dell’università), dichiarazione di reddito … [respiro profondo] … saldo bancario (movimenti e transazioni degli ultimi sei mesi), certificazione versamento contributi pensionistici (se lavoratore), autenticazione dell’avvenuto pagamento delle tasse, lettera o raccomandazione di un garante terzo residente nel paese di richiesta, somma minima di denaro (da definire), piano di viaggio. Per ogni documento bisognava presentare due copie al Consolato almeno sette giorni prima della prevista data di partenza. Ad ogni modo, la decisione ultima rimaneva a discrezione del corpo consolare in base alla documentazione fornita.
Il passaporto non era un problema, né i certificati o le assicurazioni – ovviamente per ogni singolo documento c’era da pagare una discreta somma di denaro che per un cameriere non erano cifre da poco. Il vero problema era che Lulzim lavorava in nero; non aveva mai pagato tasse né versato contributi. E di certo, pensare che il suo datore di lavoro lo avrebbe messo in regola una volta domandato era pura follia. C’era una fila di ragazzi pronti a lavorare per la metà dei soldi che Lulzim stesso guadagnava. Era disperato, non sarebbe mai riuscito ad ottenere tutti quei documenti. Mai.
[FINE PRIMA PARTE]
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