Anzi Mall, la morbida assonanza che in lingua albanese indica mancanza, desiderio, nostalgia, quel “mal del ritorno” provato da chi è stato in Africa, e che io invece ho sperimentato dopo aver messo piede in Albania per la prima volta nella mia vita.
Dicono che succeda, al ritorno dalla Terra delle Aquile. E’ cominciato mentre l’aereo decollava dal Nënë Tereza, si è fatto più forte all’arrivo, mentre eravamo in fila tutti insieme aspettando il controllo passaporti, quando alla domanda di un ufficiale di dogana “ci sono italiani?”, me ne sono rimasta lì con la mia carta d’identità aperta fra le mani, senza muovere un passo.
Farsi avanti voleva dire separarsi da loro – che chissà perché la fila devono farla anche quando tornano nella propria terra – per ridiventare noi, a cui basta sventolare un documento comunitario per evitare le attese.
Qualcuno alle mie spalle mi ha detto “vai”, e io sentivo che in quella sola parola, detta in tono incoraggiante da chi sapeva che invece a lui e agli altri toccava aspettare, c’era tanto altro, la consapevolezza di una separazione che non avrebbe più ragione di esistere in un’Europa che si vanta di aver abbattuto i muri, e un’Italia dove ogni giorno si alzano barriere contro vicini di casa che più vicini non si può.
Dieci giorni, un viaggio voluto cercato preparato: in Albania mi è successo, forse per la prima volta, che le aspettative costruite sulle letture fossero puntualmente confermate. Ad esempio, sapevo che non c’erano problemi di sicurezza personale,e che l’unico vero pericolo poteva essere semmai la sicurezza stradale… e in effetti la guida disinvolta degli automobilisti locali lo ha provato.
Indimenticabile, non solo per i paesaggi da documentario naturalistico, il ritorno da Butrint a Valona, un susseguirsi di tamponamenti (ora che ci penso, non ho mai visto ambulanze??)e sorpassi sconcertanti, che per aggirare code interminabili inventavano improbabili seconde – terze corsie di marcia, nella rassegnazione generale, almeno così mi è sembrato, compreso uno davanti a noi che si sfogava mandando accidenti alla democrazia.Ma la vera, bella conferma è stata l’accoglienza: partita da sola, non ho mai sentito la solitudine.
A cominciare dall’arrivo in aeroporto, dove, accolta dai parenti dei miei amici albanesi che vivono in Italia, ho avvertito la sensazione di sentirmi amica in un Paese fino a quel momento così lontano dalle mie frequentazioni abituali. “E’ l’ospitalità albanese”, come mi sono sentita ripetere e come, soprattutto, ho avuto modo di sperimentare in continuazione.
Ad esempio Brikena, conosciuta sul furgone da Shkodra a Lezha (grande invenzione, i furgona, un servizio a ciclo continuo che a costi minimi ti permette di andare un po’ dappertutto): una laurea in Matematica (“mi piacerebbe insegnare in Italia”) e un fidanzato ingegnere, Besmir, che, avvertito via cellulare, ci aspetta alla fermata per offrirmi un tour della città.
Confusa, ma ormai neanche più tanto sorpresa dopo altri episodi analoghi in pochi giorni, salgo nella loro auto. Prima tappa, il mausoleo di Skanderbeg, il cui scultoreo portale è serrato: s’ka problem, una rapida conversazione col custode (“c’è un’italiana che vorrebbe vedere dove è sepolto Skenderbeu”) lo fa riaprire.
Visita, fotografie, al momento di uscire chiedo di pagare il biglietto: il custode mormora qualcosa come “a piacere”, Brikena accenna il gesto di pagare per me. Mi spiegano che i genitori di Besmir hanno una pasticceria, “andiamo a vedere se è pronto il gelato”. Poco fuori dal centro città, mi ritrovo davanti al vialetto d’accesso a una casa semplice e ordinata, al centro di un frutteto. La mamma di Besmir abbraccia Brikena (“abbiamo trovato una figlia col cuore grande”), mi invitano ad accomodarmi sulla sedia davanti casa.
Ho appena il tempo di vergognarmi della mia involontaria occhiata al sedile leggermente impolverato che qualcuno lo ricopre con un telo candido. Mi siedo, mentre mi offrono il gelato appena confezionato. Spunta Gabriel, il cuginetto di due anni. Con la puntigliosità della viaggiatrice implacabile chiedo spiegazioni sul nome. “C’è nella Divina Commedia, l’ho letta quasi tutta”, mi risponde il giovane ingegnere. “A scuola?”, mormoro incredula. “Un po’ a scuola, poi l’ho presa in prestito in biblioteca per leggerne di più”.
Vorrei fotografarlo, mi trattengo. E poi Fadil, di professione taxista, che secondo accordi presi prima di partire dall’Italia avrebbe dovuto farmi da autista per le escursioni fuori Tirana (questo prima che scoprissi i furgona: vuoi mettere il piacere di viaggiare in autonomia, con Flora Gashi e il meglio del repertorio popullore sparati a tutto volume, allegramente sballottata fra una buca e l’altra e la polvere che entra dai finestrini spalancati?), che mi invita in casa, dove sua moglie Vjosa al momento dei saluti va a cogliermi un mazzolino di fiori in giardino.
E Durim, che a sorpresa viene a prendermi davanti alla Bashkìa di Tirana per portarmi in funicolare sul Dajti, un pomeriggio sorprendentemente trascorso in conversazione fra le sue tre parole di italiano e le mie due di albanese. Forse la mia esperienza è condizionata dal pregiudizio positivo: le mie letture mi facevano presagire un Paese ospitale, e la previsione si è avverata. Fatto sta che sensazioni simili mi sono state trasmesse dai racconti di altri visitatori, svizzeri, americani, un israeliano, tutti con qualcosa da raccontare a proposito dell’accoglienza locale. Ma sto scrivendo appunti di viaggio, dovrei parlare anche dei luoghi.
Potrei raccontare di Butrint, sprofondata nel silenzio dei suoi allori (dafine in albanese, bello che l’albero conservi il nome della ninfa amata da Apollo), sotto le cui porte megalitiche potrebbero spuntare da un momento all’altro Andromaca ed Enea e non te ne meraviglieresti, talmente il tempo sembra stregato su queste rive. O di Gjirokastra, fortezza di pietra e ardesia, dei suoi grappoli di tetti lungo le pendici del castello; di Kruje, dominata dalla possente ombra di Skanderbeg, e che nel suo pazar esibisce scrigni traboccanti di sontuose vesti nuziali, munizioni, gioielli.
E che dire di Berat la bianca, intessuta da ricami di chiese e moschee (a proposito, che sollievo vedere che in Albania ognuno si fa i culti suoi e convive pacificamente con quelli altrui), che nel cuore della sua roccaforte custodisce (un po’ troppo gelosamente, visti gli orari di apertura non molto favorevoli ai visitatori) le icone di Onufri. E potrei tacere di Saranda?, meta balneare fra le più ambite, ma che nel confronto con le coste ancora intatte e quasi inattingibili intorno a Karaburun non ha gioco facile, almeno per chi non si entusiasma davanti ai condomini stile metropolitano in riva al mare.
E poi Durrës, città di mare e d’archeologia, con i dolci squisiti delle sue pasticcerie in rruga Tregtare. Ma ho “abitato” per tutto il tempo a Tirana, ed è la città che più mi è rimasta nel cuore. Il suo allegro subbuglio, Sheshi Skenderbeu dove se riesci ad attraversare la strada sana e salva puoi rilassarti ai tavoli di un Café a sfogliare quel libro appena scoperto nella babele di cui sono stipati i kioska, minuscoli regni di meraviglie della carta stampata che punteggiano il centro cittadino e non solo, mai visti altrove in tanta abbondanza.
E come non parlare della gustosa cucina tradizionale, che sarà bene difendere dall’avanzata di fast food e pizzerie… ma questo, e tanto altro, si trova nelle guide. Qui, a conclusione di questi appunti, un’immagine ha la meglio sulle altre: da sud a nord, l’Albania è un cantiere ininterrotto di lavori pubblici (strade, viadotti, tunnel, ma anche centri residenziali dalle linee piuttosto sgraziate che si cerca di rendere attraenti con pennellate variopinte) e privati (dappertutto armature di case in costruzione su cui svetta immancabile la bandiera nazionale, nonché anonimi centri commerciali).
Un’attività incessante, un alveare pulsante di vita. Per chiunque abbia a cuore le sorti di questo Paese dal cuore grande e antico ma dal corpo ancora in boccio, traboccante di energie a lungo represse, l’interrogativo, e la speranza su cui vigilare, è che sotto quelle colate di cemento sappia preservare la sua inconfondibile anima.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Albania News il 31 agosto 2009