C’è una storia di emigrazione sullo sfondo di “Agon”, film di Robert Budina presentato per Panorama internazionale alla quarta edizione del Bif&st, Bari International Film Festival dal 16 al 23 marzo. Segno evidente che l’età albanese del viaggio, della fuga, della ricerca del futuro fuori dai confini nazionali, iniziata con l’odissea della Vlora oltre vent’anni fa, non è ancora finita ma continua ad essere una realtà sociale e soprattutto un tema culturale di studio, analisi, confronto, di esame interiore.
Anche cinematograficamente, l’emigrazione è un motivo centrale di riflessione tanto quanto l’insieme dei pregiudizi e lo scontro tra culture e tradizioni diverse. Ma attenzione, “Agon” non vuol essere una semplice storia di immigrati e di emigrazione ma intende raccontare lo sforzo di integrazione. Allo stesso modo crimine e mafia sono lo sfondo, il contesto in cui si svolge una parte del racconto, ma non il cuore del problema.
Saimir (Marvin Tafai) e il fratello minore Vini (Guljem Kotori) sono albanesi. Cercano di integrarsi a Salonicco, dove sono emigrati. Saimir, fidanzato con Elektra (Isabella Kogevina), lavora nel negozio di riparazioni del suocero, Nikos (Antonis Kafetzopoulos). Vini continua ad essere licenziato dai posti di lavoro che Saimir gli procura, cercando di fargli capire che solo attraverso il lavoro si diventa persone meritevoli di rispetto. Ma Vini non ha la pazienza e la persistenza del fratello maggiore. Ha fretta di affermarsi. Poi Vini conosce Ben, piccolo trafficante di esseri umani legato alla mafia albanese: soldi facili, auto di lusso e donne, prima lo attireranno poi gli faranno scoprire il triste destino a cui vanno incontro molte delle ragazze emigrate. La sua “rivelazione” si chiama Majlinda (Eglantina Cenomeri), vittima del giro di prostituzione. È stato il marito Keno (Xhevdet Jashari), capo della locale mafia albanese, a metterla sulla strada. Di Majlinda, Vini si innamora. E l’amore, nella violenza, gli farà capire cosa sono maturità e responsabilità. (Trailer su )
La sceneggiatura e la regia di Robert Budina, in 104 minuti, raccontano la storia di una famiglia e di un cambiamento che ha sullo sfondo la Grecia. Emigrazione sì, ma anche un viaggio di non ritorno, non solo perché i protagonisti cercano di inserirsi nella nuova realtà (in un faticoso equilibrio tra le radici del passato e il nuovo terreno in cui crescere), ma perché non saranno mai più gli stessi ragazzi partiti tempo prima dall’Albania. Sullo schermo c’è un viaggio interiore, un’evoluzione umana, emozionale, un percorso intimo che racconta la complessità dei sentimenti, delle relazioni tra persone, che va ben al di là del semplice viaggio fisico di emigrazione.
Il film che ha le musiche di Aldo Shllaku, il montaggio di Eugen Kelemen, la fotografia di Marius Panduru e la scenografia di Bianca Nikolareizi, è prodotto da Sabina Kodra per EraFilm Production. È stato presentato in Albania lo scorso dicembre e in Grecia a febbraio, è stato selezionato al Chicago International Film festival, candidato per il miglior film e il miglior attore maschile al Bloody Hero International film festival di Phoenix (Arizona, Usa). E infine è stato proiettato al Petruzzelli di Bari, dove il regista avrebbe dovuto lavorare se il teatro non fosse stato distrutto in un incendio, poco il suo arrivo nel capoluogo pugliese a bordo della Vlora. Un viaggio e un’emigrazione che ha raccontato, interpretando se stesso, nel film “La nave dolce” di Daniele Vicari del 2012.
Albania News ha intervistato Robert Budina. Ecco cosa ci ha gentilmente risposto.
Bari ha una lunga storia di relazione con l’Albania e sono già passati 22 anni dall’arrivo della Vlora nel porto pugliese. Che significato ha portare questo suo film a Bari?
Ha un significato simbolico. Ventidue anni fa, quando arrivai, un amico barese che mi aiutò, cercò di farmi lavorare al Petruzzelli da operaio di scena, ma proprio alcuni giorni dopo, il teatro prese fuoco. Dopo 22 anni, io debutto al Petruzzelli con il mio primo film di lungometraggio da regista. Poi Bari è la città dove io toccai per la prima volta, 22 anni fa, la libertà. È un po’ la città che ha segnato la mia vita.
Quale messaggio intende dare il film? L’integrazione è possibile?
L’unica soluzione per i Paesi più sviluppati è di convivere con gli immigrati, che arrivano da altri Paesi. Non bisogna giudicare gli altri e bisogna farsi giudicare a prescindere dai pregiudizi. Sì, l’integrazione è possibile anche se richiede il suo tempo, ma bisogna riconoscere la differenza tra le culture degli immigrati e i Paesi che li ospitano.
Spesso si pensa all’emigrazione come a un viaggio della speranza, verso un posto e una vita migliore. Purtroppo non è sempre così. Secondo lei è possibile tornare indietro in Albania?
Tantissimi albanesi stanno rientrando in Albania e stanno cercando di ricostruirsi una nuova vita. Questo avviene dopo che loro hanno già imparato all’estero una nuova cultura di lavoro, che forse prima non avevano.
E per chi è emigrato, è possibile riscoprire nel proprio Paese d’origine quel “buono” che prima non aveva visto?
Penso di sì, dopo una lunga assenza dal tuo Paese hai tutto il tempo di riflettere sui lati positivi e negativi della tua società e definirla meglio.
Il suo film fa anche i conti con i pregiudizi. Negli ultimi 20 anni ha visto cambiamenti nell’idea che gli italiani hanno degli albanesi?
Assolutamente sì, adesso non ci sono più gli stessi pregiudizi che gli italiani avevano venti ma anche solo dieci anni fa. Basta ricordare che, per il momento, tantissimi giovani scrittori albanesi stanno dominando la prosa contemporanea in Italia. Tantissimi altri albanesi si sono integrati benissimo e hanno le loro imprese in Italia, per non parlare poi delle famiglie miste che sono numerose. Penso che abbiamo raggiunto con l’Italia un rapporto molto naturale, quello dovuto.
E gli albanesi, secondo lei, che idea hanno degli italiani e dell’Italia, e quali pregiudizi? L’Italia era per gli albanesi la terra promessa, ma dopo tanti anni di sofferenza per loro, hanno preso terreno anche pregiudizi contro gli italiani, come quello che loro non si ricordano delle promesse che fanno, oppure che sono manipolatori. Adesso invece, gli italiani per gli albanesi sono quelli che per loro erano 22 anni fa: ospitali, generosi. Per di più, oggi è il Paese che si avvicina di più alla cultura albanese.