“Noi albanesi siamo una razza pulita, perfino i tedeschi ci invidiano” – mi diceva una mia zia durante una discussione sul cugino di terzo grado, sposato con una ragazza rumena.“Guarda te e tuo cugino. Alti e biondi, proprio gente della nostra razza” – alzando con fierezza la testa piena di capelli neri e ricci. Continuava a parlare sbrigando le faccende di casa e mostrando segni di sdegno contro quel matrimonio. “Ma proprio una straniera doveva prendere quello” – mi si piantò davanti con il suo metro e sessanta di statura – “con tutte le belle ragazze bionde e alte che abbiamo noi, come ha potuto prendere quella nana che sembra ‘jevge’ (descrizione spregiativa dei mori albanesi con provenienza africana)”.
Ricordando questa discussione con mia zia, non mi stupii affatto nell’apprendere i fatti di cronaca romani dove un albanese dava del ‘negro‘ ad un ragazzo eritreo che aveva fatto l’errore di entrare nello stesso bar di un coglione ignorante.
Durante i cinquant’anni di isolamento agli albanesi è stato fatto credere di essere l’unico popolo felice e sano del pianeta e che tutti volessero la loro rovina.Vent’anni dopo l’apertura a Occidente, avendo constatato di vivere in un’ illusione e con un forte senso di inferiorità culturale, e non solo, l’attuale albanese medio si aggrappa al passato ideale (mai esistito) e continua a perpetrare nel tempo e nello spazio il suo essere ZIA.