A Tirana li chiamano “Evgjitë”, “Jevgj”.
E loro chiamano noi “Gaxhi, gaxhije”, cioè “Non Rom”.
Per i Rom infatti, chi non fa parte del loro popolo, è un “Gagio” (in altri dialetti Gagio, Cagio, Kaggio, Gadjo, in Inghilterra anche Gaujo o Gorgio)
A Tirana invece, chiamano “Evgjitë” – “Jevgj”, quella parte di Rom stabili e sedentari – sembra un ossimoro – integrati ad un certo modo nella società: coloro che hanno un lavoro- solitamente, negli anni, svolgevano lavori umili e pesanti – e che possedevano un’abitazione in affitto come tutti gli albanesi, almeno fino ad inizio anni ‘90.
Perché gli albanesi vivevano tutti in affitto, la proprietà privata era stata abolita dal dopoguerra.
Chiamavano “arixhi“, “nomad, endacak“, “gabel“, tutti coloro che vivevano nelle baraccopoli alla periferia di Tirana.
Tra questi “Evgjitë”, nel mio quartiere c’erano dei bravi musicisti, solitamente suonavano clarinetto e fisarmonica e di coloro che lavoravano nel circo, l’unica ente circense statale della capitale albanese.
Ero andata con le amiche, ricordo, – io ai tempi, io adolescente – a vedere una sposa evgjite nel quartiere. Eravamo rimaste basite perché, invece dell’abito bianco che supponevamo portasse, la avevamo vista vestita con un abito appariscente colore rosso e abbellita di rose rosse sgargianti, tanta bigiotteria e trucco molto accentuato.
Mi riferisco al periodo da me vissuto in Albania, fino all’inizio anni ’90. In seguito io sono arrivata in Italia.
Quando io ero ancora una bambina, a Tirana, ricordo che vicino alla casa di mia nonna, abitava una famiglia rom che parlava perfettamente sia albanese, che greco. Loro parlavano anche una terza lingua che io non comprendevo…
O meglio: quella era la loro lingua madre, la lingua romanés, che io non sapevo come definire. Mi sembravano letteralmente poliglotti e gente di mondo…!
Infatti loro venivano dalla Grecia. La madre di questa famiglia, una donna forte con 5-6 figli, aveva lasciato in Grecia fratelli e sorelle e non so come loro stessi fossero finiti in Albania, non so se proprio nel dopoguerra.
Mia nonna, turca, ma cresciuta in Grecia, parlava il greco meglio del turco e con la madre di quei bambini parlava solo in greco.
Io preferisco definirli “Rom”, con un termine che loro stessi usano per definirsi, che significa “Uomo” nella loro lingua romanés e non con il termine “zingaro”, dalle connotazioni dispregiative che a loro hanno attribuito gli altri.
Insomma io, da figlia unica quale sono, invidiavo un pò la vivacità di casa loro ed il rapporto allegro tra fratelli e sorelle in quella famiglia.
Io avevo “un problema”: ero molto schizzinosa nel mangiare.
La nonna cucinava molto bene, anzi, era nota in quartiere come un’ottima cuoca, ma nonostante ciò, io facevo capricci nel mangiare. Allora la nonna improvvisava dei pic nic oppure delle gite fuori porta, perché all’aperto, giocando nei campi coi bambini, l’appetito mi veniva stimolato di più e mangiavo più volentieri.
Un giorno, d’estate, quando le scuole erano state chiuse, mia madre prima di andare a lavorare, mi aveva lasciato per l’ennesima volta dalla nonna.
Al suo ritorno dal lavoro, non mi aveva trovato a casa di nonna però. Quando aveva chiesto di me a sua madre, lei le aveva risposto: “Tua figlia è dai vicini Rom! La donna di quella casa, quando ha assistito ai capricci che tua figlia faceva qui con me, perché non voleva mangiare, mi ha detto di farla andare a casa loro, convinta che da loro avrebbe mangiato senza esitazioni…!”
Mia madre era corsa giù nel loro appartamento, con il fiato che a momenti le scarseggiava e il cuore che le batteva forte – perché lei stessa non conosceva bene quella famiglia e certi stereotipi o luoghi comuni su di loro e precisamente, sull’approccio da parte loro coi i bambini le frullavano in testa in quei attimi, da farla svenire, credendo che non mi avrebbe mai più vista, credendo che quella donna avesse manipolato mia nonna e mi avesse rapita … – era entrata dentro, tanto loro non chiudevano nemmeno la porta e aveva trovato me, seduta per terra, in fila con i 5-6 bambini di quella casa, “a pranzare!”
In cosa consisteva il pranzo prelibato? In una fetta spessa di pane nero dalla crosta alta, spalmato di un mestolo di zuppa di fagioli! Impensabile per me mangiare i fagioli a casa mia o da mia nonna!
E non solo, non da seduta composta a tavola come era solito per me, in una tavola ben curata ed apparecchiata a dovere, ma a terra, con un pezzo di pane nero condito con zuppa di fagioli sopra, in mano…
Mia madre aveva tentato di salutarmi, ma la madre di quei bambini Rom le aveva fatto cenno come per dirle: “Lasciala almeno finire quel pezzo di pane, non distrarla, che lo sta gustando più di un piatto di quelli a cui in casa propria fa capricci…!”
E mia madre così aveva fatto. Mi aveva osservato a distanza mentre finivo il pane e fagioli e non solo: mi leccavo pure le dita! Tanto, trasgredivo.
“La mamma non mi guarda!” – credevo…
Insomma, i bambini non conoscono barriere etniche, culturali.
Io li consideravo uguali a tutti gli altri bambini, mi piaceva la loro allegria e non mi rendevo conto della differenza che c’era per il modo e la qualità del mangiare tra la casa mia e quella loro.
E non solo per il mangiare, ma per tutto lo stile di vita che conducevamo a vicenda. In quell’età, quei paletti erano invisibili…