“Con l’esodo biblico degli albanesi, del 7 marzo 1991, il signor Gëzim, nonostante non fosse più giovane ormai, ma un uomo di mezza età, si era ritrovato insieme alla propria famiglia sulla nave che li stava trasportando verso le coste italiane!”
“Gëzim ed il mistero delle camicie a maniche lunghe durante il picco del caldo estivo”
Negli anni ’80, durante la dittatura in Albania, io ero ancora una bambina, vivevo a Tirana ed avevamo un vicino di casa che si chiamava Gëzim.
Lui oggi è un uomo sull’ottantina d’anni, ha pressappoco l’età di mio padre.
Ma noi, a quei tempi dei ragazzini, non riuscivamo a realizzare il perché del fatto che il compagno Gëzim, anche durante il picco del caldo estivo di luglio o agosto, andasse in giro con delle maglie oppure con delle camicie rigorosamente a maniche lunghe!
Questo si era addirittura trasformato in un motivo di derisione da parte nostra, al punto che tutte le volte che lo vedevamo passare nel piazzale antistante al nostro condominio, iniziavamo con un brusio di commenti sottovoce e risate.
Il nostro parlottio cominciava: “Povero, ma insomma, non ce l’ha una maglietta o camicia a maniche corte? Ma se siamo nel bel mezzo del caldo, lui sta morendo con queste maniche lunghe …!”
Lui a quanto pare, aveva percepito tutto: la nostra curiosità, tipicamente quella dei bambini a cui non solo non sfugge niente, ma che spesso diventa anche senza scrupoli, pungente, proprio perché spontanea e priva di riserve. Lo aveva capito dalle nostre reazioni e la cosa lo aveva portato a parlare con qualcuno dei nostri genitori …
Questo era bastato per far sì che i genitori richiamassero la nostra attenzione, ordinando noi di non burlarsi più del compagno Gëzim.
E ci spiegarono pure il suo “disagio”!
Dallo stato di tensione che avevano creato i miei – severi nel rimproverarmi – in un primo momento, nei confronti del compagno Gëzim avevo avvertito un senso di compassione o suggestione, in quanto avevo pensato che lui fosse stato lesionato, che avesse avuto un grave problema patologico o dermatologico sul braccio o che, addirittura avesse l’avambraccio finto!
Però, nessuna delle mie ipotesi sussisteva!
Il compagno Gëzim – noi bambini per la verità, attribuivamo l’appellativo “xhaxhi” agli adulti, quindi “xhaxhi Gëzim” – quando era stato giovane, durante il servizio militare di leva, aveva fatto con dei mezzi di circostanza, un po’ fai da te, un tatuaggio sull’avambraccio!
A quei tempi quando lui aveva fatto il militare, quindi all’incirca verso gli anni ’60 in Albania, questi tatuaggi i ragazzi li facevano, per come mi spiegavano, con dei mezzi fai da te e di circostanza, perché è chiaro che non esistevano veri e propri laboratori per tattoo, con degli aghi caldi e dell’inchiostro che veniva inserito in modo sottocutaneo rimanendo indelebile.
Ma, una volta superata quella età delle pazzie, lui ormai adulto, sposato, padre di famiglia, con tre figli, un lavoro ed una posizione sociale ormai dignitosa, si vergognava e si faceva creare dei complessi ad andare in giro con quel tatuaggio sull’avambraccio, perciò tendeva a nasconderlo in ogni stagione.
Quella era un’epoca per l’Albania, in piena dittatura e censura, in cui l’etica e la morale socialista imponevano compostezza e vietavano ogni segno di trasgressione, tatuaggi compresi!
Naturalmente, colui che portava addosso questi segni od “errori giovanili”, ormai non li poteva più cancellare, ma aveva il dovere di nasconderli e di gestirli a modo e con criterio. Al contrario di oggi, che i tatuaggi si fanno sia per una necessità emotiva interna, ma soprattutto per esporli.
Sfortuna aveva voluto per Gëzim che, per il suo tatuaggio avesse scelto un posto non strategico, un posto che si faceva fatica a nascondere, l’avambraccio, su cui aveva tatuato una nave! Evidentemente aveva fatto il servizio militare in marina!
Quindi, di quel tatuaggio che lo perseguitava e che lo metteva in imbarazzo, lui non poteva soffrire solo nella stagione fredda, quando si poteva tranquillamente coprire con le maniche lunghe delle maglie, ma in estate cominciava la sua tortura.
Eppure, si trattava di una semplice nave come tatuaggio.
Non era questione di un disegno indecoroso o meno, ma semplicemente, l’immagine dell’uomo socialista nuovo doveva risultare pulita ed impeccabile!
Da quel giorno, noi non ci eravamo più presi gioco del compagno Gëzim, il quale, un po’ per il carattere riservato, un po’ per i tempi che correvano in Albania, si sacrificava a portare le camicie a maniche lunghe rigorosamente anche al picco del caldo estivo, per colpa di quel “sconveniente o peccato di gioventù”!
Anzi io, essendo stata già da piccola molto creativa e che girovagavo lontano con la fantasia, mi ero creata l’idea che quella nave che Gëzim portava sull’avambraccio, visto il bagno di sudore da cui il suo corpo veniva inondato d’estate – proprio perché vestito sempre rigorosamente con le maniche lunghe – avesse già iniziato a navigare verso l’approdo ad un porto in incognito …
Un tatuaggio che presagisce una sorte …Una nave!
Con l’esodo biblico degli albanesi, quello del 7 marzo 1991, nonostante ormai non più giovane, ma da uomo di mezza età, il signor Gëzim, si era ritrovato insieme alla propria famiglia, sulla nave che li trasportava verso le coste italiane!
Quella era stata la prima volta in cui, dopo una vita intera, Gëzim indossava spensieratamente una camicia a maniche corte!
I suoi avambracci erano scoperti, spogliati anche dai complessi, dai pregiudizi, dagli inutili sensi di colpa e dalle paranoie. Nel suo avambraccio destro si notava chiaramente un tatuaggio: una bella nave!
A quei giovani lì presenti a bordo della nave, coetanei dei suoi figli, lui si vantava dicendo:
“Io possiedo un vecchio legame spirituale con il mare, il mare e le navi li ho sempre portati dentro di me, nella mia anima, sebbene io abbia vissuto per anni a Tirana e non proprio vicino al mare.
Ho fatto il servizio militare di leva nella marina e, guardate che bel tatuaggio con la nave che porto, che voi giovani, almeno fino ad oggi, non ve lo siete nemmeno potuti permettervelo uno simile …!”
“Infatti, io appena raggiungo le coste italiane, farò un bel tatuaggio!”- gli era giunta una voce dal fondo del bordo della nave.
Era stato un giovane albanese che come tutti, stava assaporando il viaggio di libertà, nonostante si sentisse avvolto nell’ansia dell’insicurezza per la nuova vita che lo attendeva.
Il tatuaggio, in quel periodo di inizio transizione e cambio dei sistemi politici in l’Albania, per molti giovani albanesi significava forse non meramente una trasgressione indefinita, bensì una ribellione mirata:
Quella nei confronti della dittatura e della censura, dalla quale stavano arrivando sofferenti e di cui si sentivano stigmatizzati dentro …