Il No B-Day ha fatto scuola.
Un giorno un gruppo di ragazzi particolarmente sensibile ha scoperto quello che Montesquieu aveva rivelato secoli fa: se i rappresentati non si sentono rappresentati hanno il diritto, anzi, il dovere, di alzare la voce. È così che è nato il B-Day, una nuova esperienza, sì, ma solo per il modo di organizzazione, e forse neanche per questo, considerato Genova 2001.
I mezzi elettronici hanno permesso di scavalcare filtri sociali o politici. Perché a passare tra i filtri, si sa, qualcosa si perde sempre per strada. Eppure, nonostante tutto, il no B-Day è stato un successo, non tanto per le cifre quanto per l’idea. A volte le idee più semplici sono le più utili.
Tra le poche certezze della vita figura anche questa: se qualcuno fa un gesto intelligente, state sicuri che qualcun’altro lo ripeterà e cosi via, all’infinito. Anche lo sciopero del primo marzo è figlio della stessa idea. Certo, si può obiettare che è più vicino allo sciopero dei sans papiers in Francia, eppure a me piace pensare che seppure il Popolo Viola e i Migranti hanno un fine diverso (ma così diverso?) si parte dagli stessi presupposti e speranze. E che questo fine – la generazione del ‘68 insegna – non è tanto quello di rovesciare un qualche sistema esistente quanto il battere un colpo, alzare la mano e dire: Presente, siamo ancora qui.
I sindacati, come tutto il resto, sono in crisi perché non sanno più rappresentare, ma i lavoratori lo sono ancor di più perché sentono che si sono rotti tutti i ponti che prima, nel bene o nel male, assicuravano una certa visibilità. E se questo succede con i cittadini italiani, i quali hanno un contratto e una tessera sindacale, immaginate cosa succede con quelli che neanche esistono, che non esistono nei cantieri dei Nord, né nelle pianure del Veneto, né mentre raccolgono la frutta. Bisogna trovare un altro modo. Oggi, ci dicono, lo sciopero non è più possibile per tante ragioni (la Cina, il Partito Comunista, la precarietà). Lo sciopero tradizionale funzionava, primo, perché c’era qualcosa da fermare e, secondo, perché c’era una solidarietà tra gli operai. Tra i metalmeccanici di Aosta e quelli della Sardegna c’era una solidarietà che andava al di la dell’appartenenza geografica. Come la marcia dei 40 mila che divento tale solo in quanto i giornali scelsero quel numero invece del numero effettivo che era di circa 10 mila.
Altri tempi. Adesso invece non puoi fermare qualcosa che è già fermo, mentre sembra che la solidarietà non riesca neanche a passare oltre i confini regionali. Uno sciopero funziona come minaccia in quanto c’è qualcuno da spaventare, se questo non esiste allora anche l’arma dello sciopero diventa solo un rispecchiarsi che non porta da nessuna parte.
Sono dunque necessarie altre forme. Lo sciopero del Primo Marzo è tra queste. In una società che ci vuole solo consumatori, (PRODUCI CONSUMA CREPA, come cantavano i CCCP) è solo interrompendo questa catena che hai qualche possibilità di essere sentito. I ragazzi questo lo sanno, il governo anche, i sindacati sembrano ignorarlo. Non che mi dispiaccia, anzi, rielaborare una forma di protesta dal basso è quanto di più stupendo si possa sperare. E non c’è altra idea migliore se non colpire li dove fa più male: non consumare. Anche per un solo giorno, anche per un solo giorno. E, badate, non tanto per ottenere migliori condizioni di lavoro o di contratto, ma soltanto per manifestare la propria esistenza e i propri colori. Tradurre le cifre del governo in visi, sofferenze, pensieri, idee, pelle, contratti. E siccome è proprio necessario, perché no, anche sotto forma di danno economico. Non so come andrà, non sono molto ottimista, ma so già che anche il solo fatto di essere, ed essere in tanti, sarà un successo. Cosi come so che comunque vada, il 2 marzo sarà un giorno diverso. E per questo sarò Presente.