Se solo penso che siamo a un passo dall’avere quei diritti che così a lungo ho atteso insieme ai miei simili qui in Italia, mi viene il magone. Esso è convulso, potrebbe esplodere da un momento all’altro in un pianto disperato.
Se non scrivo, quel pianto potrebbe tradursi in un’isteria triste, proprio qui, sulla linea gialla della metropolitana di Milano che prendo ogni giorno per andare a lavorare. Pensa, mi dico, immagina un pianto ininterrotto, proprio come quelli albanesi da funerale, ti ricordi le donne anziane vestite di nero e con il fazzoletto raccolto intorno al capo che piangevano per giorni? Piangeranno ancora?
No, non è il caso, i milanesi, o meglio, i cittadini che vivono a Milano, sono persone ragionevoli e lontane da certe debolezze d’animo. In pieno giorno di via vai frenetico, lo prenderebbero come semplice esaurimento nervoso da stress lavorativo…o non lavorativo. Non mi posso permettere anche i fraintendimenti.
Leggo e rileggo articoli e commenti sulla nuova ministra per l’Integrazione, Cécile Kyenge . Vedere lei in TV mentre viene intervistata da giornalisti, di sinistra e non, è come se all’improvviso mi guardassi allo specchio e realizzassi che invece di 35 anni ne ho ancora 16, l’età in cui mi imbarcai per percorrere il viaggio migratorio insieme ai tanti nuovi arberesh verso il nostro Mondo Nuovo dell’oltremare.
E io ci penso a Cécile. Mi chiedo che cosa prova. Ad esempio, gli occhi. Mi concentro sullo sguardo, spesso è triste e stanco, ma reagisce orgogliosamente alzando le sopracciglia ed equilibrando le risposte. La bocca. Gli angoli cedono leggermente, ma quando parla pondera ogni parola come se fosse messa sotto esame in ogni momento. Le sue narici si dilatano come se avvertissero il triste imbarazzo di chi la sta guardando da casa.
Traccio mentalmente una mappa della mia anima. Laddove risiede l’Africa, là, nel profondo degli istinti più acuti di essa, vorrei abbracciarla, e tanto anche, ma invece di abbandonarmi a simili sentimentalismi, mi dico ininterrottamente: “Scrivi, scrivi”. E il pensiero rimane fisso: “Da dove comincio?”.
Ho 16 anni. Questa sera devo prendere il traghetto “Palladio” e sui finestrini del treno sgangherato che mi sta portando a Durazzo ci sono le prime gocce di pioggia di questa lunga e fatidica giornata d’ottobre. Ci sono mia madre e mio padre seduti di fronte. Incombe un silenzio assordante. Tra noi scorrono correnti dai mille colori. Non oso guardarli, ma rimango con lo sguardo fisso verso il vetro.
Mentre ci avviciniamo alla spiaggia, affiorano inevitabilmente i ricordi delle vacanze e dell’annuale appuntamento estivo quando io mi trasformavo in una cavalletta impazzita per la gioia di rivedere il mare. Ed io ho ammesso a me stessa che no, non avrei mai potuto immaginare il mio futuro in un giorno ed un momento così su questa stessa spiaggia. Mentre scendiamo, realizziamo che dobbiamo fare i conti con il fango tra le erbacce e l’immondizia. Mia madre, che non è mai stata una sportiva, non ha nemmeno le scarpe adatte.
Rimane bloccata per un attimo. C’è buio ovunque. Dopo un quarto d’ora di cammino, vediamo il porto illuminato. Il traghetto è lì, attraccato. Sembra una nave spaziale, ai miei occhi al meno. Non rimango con loro a lungo. Devono riprendere il treno di ritorno e non possono fare tardi. Saluto mio padre, che mi dà solo la mano per via di vicende trascorse tra di noi nei giorni e mesi precedenti, e abbraccio mia madre, che è tutta l’opposto, non può mai trattenere le lacrime. Non so bene che cosa sta succedendo, cioè voglio non sapere.
Al primo gradino del traghetto mi volto e…la verità mi si spalanca davanti agli occhi: mio padre mi guarda con la testa e le spalle abbassate e le mani raccolte sotto la pancia e mia madre mi saluta con la mano svolazzante e agitata.
Il mio primo giorno di scuola a Milano. E’ un liceo scientifico, che da noi corrisponde con la generica scuola media superiore. Sono davanti alla mia nuova classe. I miei compagni hanno qualche anno in meno perché mi hanno iscritto in seconda, mentre nel mio paese dovrei essere in terza. Devo recuperare materie come storia, latino, italiano. La preside mi presenta ai miei compagni, mentre io sento un gran calore sulle guance. Mi indicano il mio posto. Ultimo banco a sinistra.
Sento addosso gli sguardi eccitati dei miei compagni incuriositi. Alcuni di loro saranno sempre al mio fianco nello spiegarmi le varie cose di cui sono completamente ignara, a partire dall’abbonamento dei mezzi pubblici, ai compiti, dove si comprano i libri, cosa si dice e non si dice, come funziona il sistema scolastico e persino quello giudiziario e politico.
Parlo un italiano discreto, ma non è sufficiente per lo studio. I libri sono pieni di termini che non conosco e spesso riscontro difficoltà nella loro comprensione. Vengo affidata ad un’insegnante che si è offerta di darmi lezioni gratuite di italiano e latino. E’ e diventerà un mio importante punto di riferimento. Le chiedo perché lo fa e mi spiega che nei suoi principi non esistono lezioni a pagamento, perché il sapere non si compra né si vende.
Inizio a riflettere e a rendermi conto del nuovo quadro in cui mi sto inserendo. Esso è ricco di valori che non conoscevo ed inizio a vedere me stessa come un essere nuovo, lontano dai problemi della fame, dell’ordine pubblico, lontano da un paese in preda alla confusione in toto. A scuola credo che non ci siano altri immigrati come me, o forse, talmente pochi, che non ne ho alcuna conoscenza. Imparo il concetto di autogestione e occupazione a scuola.
Partecipo alle discussioni, racconto la storia del mio paese e guadagno un rispetto inaspettato. Mi innamoro anche, o forse sono solo infatuazioni. Ma quel passo dal condurre una vita minimamente simile ai miei coetanei è una voragine enorme che non mi sogno neanche di superare. Sento gli occhi di quello o di quell’altro ragazzo che mi accarezzano con la brama segreta di conquistare un frutto proibito. Ma forse sono io che rendo le cose più difficili di quello che sembrano.
Gli anni passano. Allo studio associo il lavoro. L’Italia sta cambiando e il numero degli immigrati diventa sempre più crescente. In quinta liceo, i miei compagni di classe discutono sui nuovi sbarchi. Dai banchi sento voci ostili verso gli immigrati. Gli albanesi sono gli stupratori, ladri e spacciatori per eccellenza. Non dico mai nulla, non riesco a raccogliere le forze per reagire.
Quando entra in vigore la legge Bossi-Fini, sono all’ennesimo anno fuori corso dell’università. Non mi viene rinnovato il permesso di soggiorno e scopro che in prefettura c’è già pronta la lettera per l’espulsione. Risolvo il tutto in circa tre anni. I miei lavori consistono in pulizie, call-center, receptionist e simili.
Dopo nove anni mi laureo e continuo a lavorare al call-center, finché non decido di rinunciare ad un contratto a tempo indeterminato per dedicarmi all’insegnamento.
Ed eccomi qui, a parlarvi della mia vita che è quella di migliaia, ad un punto praticamente cruciale per la vita degli immigrati in Italia. Vedo Cécile e il suo viso mi riscalda il cuore. Non avrà vita politica facile, ma io mi sento rinascere.