L. è un bravo fotografo, anzi bravissimo direi. Potrebbe avere tante opportunità se glielo permettessero ma è costretto a vacillare da una disoccupazione all’altra. Perché solo di fotografia si vive con difficoltà.
L. oltre ad essere un bravo fotografo è anche un uomo come tanti altri che dopo la ricerca continua di un lavoro stabile (tra parentesi) sembra aver deposto le sue speranze altrove. La città in cui è nata non solo è cambiata ma si è trasformata, nel tempo, a causa di una crisi socio economica in un’officina di disoccupazione. Gli “addetti alla disoccupazione” aumentano di giorno in giorno e tutto ciò crea uno spunto per le “lotte” tra i poveri. L. è parte di una cerchia di persone, sempre più in crescita, in cui stanno dilagando sentimenti come paura, ansia, senso di spaesamento e una speranza che mira a spendere le candele, una dopo l’altra – e nell’età che supera i 45 anni (come nel suo caso) tutto questo grafia la sua esistenza.
Capiamo come stanno i fatti. Aveva un lavoro fisso per diversi anni, aveva comprato la casa, poteva gioire della sua grande passione, la fotografia e pensava che tutto avrebbe proceduto secondo un regolamento che prevede la ricompensa di una vita di lavoro: la pensione. Ma, un bel giorno la ditta fallisce, lui si trova senza lavoro. Scopre di aver superato la soglia di un’età accettabile per la forza lavoro. Intuisce che nessuno vuole assumerlo, se non occasionalmente. Niente più contratti, niente più lavoro e niente di tutto quello che lui aveva programmato come continuazione della sua vita.
Si sa che l’immaginazione non è sinonimo di realtà ma quella realtà si è ribaltata sino a renderlo un uomo con un certo destino e la ricerca di un lavoro per lui, con l’età che procede, non sembra essere un affare sui cui destinare tutte le tue energie. Le sue energie iniziano a concentrarsi sulla delusione e con fatica riesce a credere che il miracolo lavorativo si ripresenti da dover così appagare tutte le sue vecchie aspettative.
Per non finire nella trappola di una disperazione, che ritirerebbe chiunque nella sua fossa se solo si trovassero in quella sciagurata disoccupazione, lui prende la macchina fotografica e scatta. Sogna ancora di diventare un fotografo riconosciuto, e non pone limiti di età a questa famigerata passione.
Scatta di tutto e nel mirino del suo obiettivo rientrano anche immagini di persone di diverse provenienze. La sua attenzione propone uno sguardo verso tutti questi volti, momenti e questioni che hanno a che fare con cittadini che hanno scelto di vivere nel suo paese. L’obiettivo della sua macchina fotografica è abbastanza multiculturale. Questo è un primo aspetto che rende L. un uomo con sembianze progressiste.
Questo non si direbbe se qualcuno sentisse qualche sua sporadica considerazioni su fatti di immigrazione. Potrebbe scoprire una sua forma di “ostilità” nei confronti di alcuni tipi di immigrati. Quello che lo disturba è frutto della paura, di quel sentimento che riesce a imporsi in un momento di crisi, e quanto tutto il tuo mondo e la tua città sta cambiando sotto i tuoi piedi. Capisco la sua difficoltà nel accettare una trasformazione così veloce della sua città ricca d’arte. Una preoccupazione che vedo anche in diversi amici che sono nati e cresciuti qui.
Ma L. continua a fotografare realtà migranti, volti di persone che hanno un ruolo in questa trasformazione e al di fuori di un certo linguaggio, delle parole espresso con il petto in poi lui rimane una persona che non riuscirebbe a infliggere nessun male. Anche le sue parole, con la giusta dose di ironia possono creare una situazione di “presa in giro”, simpaticamente giocando.
La sua disoccupazione quanto la nostra ci rende anche soggetti sensibili verso delle problematiche sociali, come l’immigrazione, dal momento che comportano una metamorfosi delle nostre abitudini, delle nostre piccole certezze e potremo percepire che qualche parola di troppo ne scappa, che sia giusto o no, ma è l’uomo che con la sua pancia sta ragionando.
Non è quello che può fermarmi a considerarlo comunque una bravissima persona, una persona di cuore. Non è un linguaggio ad imbrogliarmi anche perché di oratori e persuasori che usano le parole, il linguaggio della mente piuttosto che quello che proviene da un sentimento più profondo ne ho conosciuti in quantità elevate. Persuasori che oltre alle apparenze non pongono benché minima preoccupazione per la vita di coloro che con il loro linguaggio o gesti socialmente riconosciuti ed applauditi non muoverebbero neanche un dito. Non muoverebbero neanche il loro didietro, se non nel caso in cui la loro figura ne uscisse elogiata come quella di benefattore o benefattrice. Per questo considero L. e altri come lui delle persone che vanno guardate oltre alle parole.
Sto collaborando con lui per un progetto che appunto parla di immigrazione ed ho avuto modo di conoscerlo oltre al suo linguaggio. E ho conosciuto l’uomo con le sue paure e con i suoi ragionamento che vanno oltre la pancia. Ho conosciuto i suoi gesti, che reputo rappresentino molto di più una persona. Nel suo caso, la persona va oltre il linguaggio che potrebbe non essere “politically correct”, potrebbe non essere elaborato, ornato di prelibatezze delicate e di “bon ton” ma riesce a non far sparire l’uomo che c’è dietro. E quest’uomo dall’obbiettivo che cattura volti estranei, in preda delle parole che esprimono paura riesce a dimostrare la sua umanità, la sua solidarietà attraverso ciò che in concreto fa.
L’ho visto trovare lavoro ed aiutare nella sua discrezione proprio quelle persone che lui con il suo linguaggio reputa, in un certo modo, invasori della quiete che prima regnava. L’ho visto preoccuparsi dei neri, dei bianchi, di extracomunitari in difficoltà. Delle persone abbandonate, delle persone bisognose di calore, di un piatto caldo e di coperte. Ha aiutato ed aiuta perché il suo cuore parla un linguaggio semplice, solidale e umano. Un linguaggio che non dipende da quello delle parole intimorite. Perché L., come tanti altri è una persona che sta vedendo il suo mondo sgretolarsi, è una persona che si sente escluso perché per la sua età un posto di lavoro non c’è, si sente già un escluso. Già, perché qui c’è un destino comune agli over 35 anni, che siano uomini e che siano donne, che siano italiani e siano stranieri: siete e vi sentirete fuori circolazione.
Quello di L. è la storia di tutti noi senza eccezione. Non c’è colore, non c’è dialetto, non c’è fossa che non ci accomuna dinnanzi al volto della paura, fino a renderci linguisticamente aggressivi, ma ciò che è peggio umanamente aggressivi. Non è il caso di L. che sono sicura che una volta imparato ad affrontare il timore, imparerà anche a spazzare qualche parola di troppo, quegli incidenti linguistici. Lui con il suo obbiettivo continuerà a scavare nella profondità di tutti questi volti che teme.
Io non ho paura di L. non ho paura delle sue parole perché il mio sguardo ha imparato a vedere l’uomo o la donna che c’è dietro ad ogni volto, che si nasconde dietro ad ogni bella o brutta parola.
Tuttavia credo che la pancia non abbia sempre ragione, che la sua voce se non “addomesticata” può ferire in ugual modo quanto un gesto privo di sensibilità. In tempo di crisi si sa, le voci come quelle di L. e di altri aumentano come le formiche, rischiando di non porre limiti a questa continua esclusione tra persone.