Ci sono delle storie che tornano con cadenza regolare. La casa gialla di Dick Marty, il Protocollo dei Savi di Sion, la mafia albanese. Questa volta il pretesto è il reportage del giornalista spagnolo David Berian, trasmesso da “La Nove” pochi giorni fa.
Il reportage ha il grande difetto di partire con un’idea precostituita, quella della ricerca della conferma di quello che già si sa. In altre parole: non si cerca di capire se esiste una mafia albanese, perché di questo il giornalista è già convinto, si cercano delle prove a supporto di questa tesi. Il problema principale è quello di cercare di sostenere questa tesi fino alla fine, mettendo assieme troppe informazioni che assieme non ci stanno. Insomma, “un’impepata di cozze” che cerca di collegare il Kanun, la criminalità organizzata italiana, un assassino a pagamento, un fabbricatore di esplosivi e così via. Tutte cose vere, chiaramente, ma tutte cose non collegate tra di loro. Ne viene fuori un mosaico che fa fatica a stare in piedi.
A parte questo non piccolo difetto, e a parte una fotografia a volte stucchevole (da True Detective 1, per intenderci) il reportage è sicuramente lodevole. Ha il merito di far vedere e far parlare persone concrete mentre svolgono attività criminale concreta, da entrambi i lati dell’Adriatico. Ha il merito di farci entrare in case e in meccanismi che non sono mai stati esposti in questo modo. Questo, da un certo punto di vista, è anche l’aspetto più buffo: vedere persone violare la legge e spiegare come la violano mentre la violano.
Il reportage ha sollevato, comprensibilmente, reazioni dure in Italia, luogo di consegna dello stupefacente Ma esiste veramente una mafia albanese in Italia/Europa? Rispondere è molto complesso perché dipende da quello che intendiamo per mafia. Prendiamo la definizione più classica: la mafia è un’organizzazione criminale suddivisa in più associazioni, che esercita il controllo di attività economiche illecite, del sottogoverno e che esercita o tenta di esercitare il controllo del territorio nel quale è radicato.
L’associazione per delinquere, invece, si verifica quando tre o più persone si associano al fine di commettere più delitti. La differenza tra le due strutture non è facile da comprendere, ma grosso modo è il seguente: l’associazione a delinquere di stampo mafioso, a differenza di quella semplice, deve avere una forza di intimidazione del vincolo associativo, la condizione di assoggettamento dei suoi partecipi e la omertà.
In questo senso, è difficile dire che esiste una mafia albanese in Italia. Si tratta, maggiormente, di semplici associazioni, tra di loro sconosciute, che operano in totale autonomia e che si fanno spietata concorrenza. Tutti argomenti che ho trattato altrove e sui quali evito di tornare. Spesso poi, a differenza delle altre strutture, il crimine albanese non rappresenta una vocazione, ma solamente un business passeggero che si può abbandonare per tornare nella legalità. Non sono io a dirlo, chiaramente, è quello che emerge dal rapporto nazionale antimafia.
L’ultimo rapporto disponibile del 2017 relativamente ai detenuti stranieri ristretti negli istituti penitenziari italiani (aggiornato al 19 ottobre 2016), piazza gli albanesi al primo posto come condannati per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. Associazione semplice, quindi. La situazione cambia molto nei condannati per associazione di stampo mafioso: ci sono appena 8 cittadini albanesi condannati per questo reato, preceduti da Nigeria (21) Romania (14) e seguiti da Cina (6). Otto condannati su una platea di circa mezzo millioni di albanesi in Italia.
Intendiamoci: tutto questo non lo rende meno pericoloso, e non si scrive certo per ridimensionare il problema che esiste e che è serio. Ma è necessario porre le cose nel giusto contesto.
Il vero problema, in realtà, si intravede all’orizzonte. Il lavoro del governo albanese, che grosso modo è riuscito a debellare la produzione di marijuana, ha avuto effetti inaspettati e dannosi. Distruggendo il capoluogo della coltivazione della marijuana (Lazarat) ha solo contribuito a creare tanti piccoli centri di produzione, nascosti e più difficili da localizzare, ma altrettanto efficaci.
Ma, cosa ancora più grave, essendo venuto meno la principale fonte di sostentamento della criminalità albanese autoctona (coltivazione e vendita di marijuana), negli ultimi due anni questa si è data ad altri traffici. Forse era inevitabile: avevano le competenze, avevano i canali, avevano e hanno una prateria aperta in Europa. Da paese di produzione di droghe leggere, l’Albania sta diventando paese di transito per droghe pesanti, come canale alternativo al Benelux. É un canale dal quale passano droghe pesanti come la cocaina, o altre che sembravano sparite, come l’eroina. Qualcuno nelle capitali europee, seppure sottovoce, sta cominciando a parlare dell’Albania come di un narcostato. Non lo è ancora, ma lo potrebbe diventare. La criminalità albanese si sta reinventando così, e nessuno sembra sapere come rispondere a questa mutazione.