La mia presenza è tutt’altro che utile, me ne rendo conto, ma ho una curiosità malata di vedere come vanno le cose, la voglia di lasciare scuola per quei cinque giorni, e in un certo senso, per i motivi sbagliati e le ragioni più assurde, Tirana mi piace.
Allora prendo la mia decisione. È irrevocabile come sentenza, perché ho scritto un libro, e dei libri c’è una fiera. I due lati della medaglia sono inscindibili, e mi dico che devo esserci. Lo sento quasi come un obbligo, finché il fatto di dover essere presente non diventa qualcosa di più di un desiderio personale. Un compito doveroso, dettato da volti igniti.
Se si sa cosa cercare pare che del Panair si parli ovunque, ma se l’interesse è quello che è, l’evento rimane coperto dal disinteresse.
Come dicevo sono cinque, i giorni. Dal 11 al 15 novembre. Sono fortunato, mi dico, c’è il fine settimana di mezzo. Così non devo saltare troppi giorni di lezione. Di convinzione ne ho poca, ma non c’è niente da fare, non posso permettermi troppe assenze.
Allora in barba a tutto ci vado. Ed è la prima volta che torno in Albania due volte in un così breve lasso di tempo. A settembre ho fatto il primo viaggio. Quel rito familiare a cadenza annuale tra incontri fortuiti e cene programmate. Ma stavolta è diverso, mi dico. Vado da solo e posso fare quello che voglio.
La mia faccia sarà solo quella dell’ennesimo sconosciuto dietro uno stand al quale chiedere il prezzo dei libri. Questo immagino. Ma io a una fiera del libro non sono mai stato, e ora che le scuse sono una più valida dell’altra, di motivi per tornare indietro non ne vedo. Se poi si aggiunge quell’inflazionato senso di vita vissuta che una cosa come questa può dare, i rimorsi finiscono tutti nel cesso.
Chiedo a conoscenti come sia la Fiera del libro di Tirana. C’è chi di esperienza ne ha più di me, e non mi va di arrivare impreparato.
Da chi c’è stato non arrivano belle parole, e di peggiori ne sento da chi non c’ha mai messo piede, perché così gli è stato detto.
“Non che a noi piaccia parlar bene delle cose” mi viene da dire.
“ Anche questo è vero”.
Allora ci vado.
Il primo giorno non posso essere presente perché il biglietto aereo costa troppo. Arrivo il 12, sul tardo pomeriggio. Un secondo giorno di fiera che va avanti senza di me perché dalla mai città a Tirana dopo una certa ora non si va e non si torna.
Però il 13 mi sveglio presto.
Alle 8 in punto parte un pullman e io lo prendo. Non ne vedo il motivo ma sono emozionato come quando da bambini andavamo in gita. Il viaggio è più lungo di quello che la distanza suggerisce perché ci fermiamo ovunque per far salire chicchessia, e l’ingresso a Tirana è un’impresa che ha bisogno del suo tempo, ma alla fine arriviamo.
Mi guardo in giro per orientarmi un po’, perché la città la conosco, l’ho vista tante volte e altrettante l’ho girata in lungo e in largo. C’è da dire però che nel processo dell’esistenza che un luogo può compiere, questo luogo in particolare è in piena pubertà. Un marasma ormonale che si muove e fa si che tutto cambi da un giorno all’altro, in quest’esplosione acneica che impedisce ancora di vedere quello che sarà il risultato finale. Crisi di rabbia e problemi che solo una città adolescente può portarsi dietro.
Le cose si mantengono in un equilibrio lunatico che vacilla ma nonostante tutto continua a stare in piedi.
Insomma, io cammino e nel bene o nel male mi oriento. I punti da seguire sono i solito. Raggiungo l’Opera, e tiro avanti.
Il Boulevard dei sogni infranti, o come volete chiamarlo, mi conduce alla meta. E da lontano vedo una folla di gente che se ne sta lì dove la distanza mi suggerisce dovrebbe essere il Palazzo dei congressi.
È li che c’è il Panair, mi dico. E c’è tutta questa fila?
Ma invece no. Mi sbaglio, e la cosa un po’ mi delude perché la folla di gente che di speranza me ne ha data si trova davanti alla sede del primo ministro. C’è qualcuno che parla di tasse e di aumenti. “Turp! Turp! Turp!” segue il resto.
“L’ingiustizia sociale non può essere accettata!”
“Turp! Turp! Turp!”
“Noi non ce ne andremo finché non ci avranno ascoltato!”
Turp! Turp! Turp!”
Alla folla passo in mezzo con tranquillità perché sono pochi. Certi, poi, sono solo curiosi che di giustizia sociale ne hanno le tasche talmente piene da doverne rifiutare un altro boccone.
Lo vedo più avanti, il palazzo dei congressi. Ci ho sempre fatto poco caso.
La Vodafone ha monopolizzato l’ingresso, coprendo il copribile. Il resto vien da sé. Le porte sono spalancate e persone entrano ed escono.
“Scusami” mi sento dire. E penso tra me e me che forse sono già diventato famoso. Il tizio qui davanti con capelli laccati e fotocamera in mano vuole chiedermi una foto. “Scusami” mi ripete “Faresti una foto a me e alla mia famiglia?”
Dico di si e gli afferro la fotocamera.
“Mi raccomando” Continua il tipo. “Fai in modo che si veda bene la scritta Panairi i librit, mi raccomando”.
Una, due tre, la cosa diventa quasi un set fotografico, e quella che doveva essere un singolo scatto si trasforma in un calendario di belle intenzioni.
“Grazie mille! Rrofsh!” Esulta lui “Volevamo farci un selfie, ma non si vedeva bene il posto, sai..”
Io annuisco. Sorrido, pure, ma in realtà no, non so.
Alla fine ci riesco, ad entrare. E in un certo senso di inaspettato c’è ben poco. Si mantiene tutto nel classico allestimento da fiera del libro che lo stereotipo propone. Stand che si divincolano qua e la, piccoli e grandi. Un tumulto di informazioni scontate del 20%.
Sono curioso di guardarmi intorno, ma mi viene da pensare che è il caso che vada a salutare prima il mio editore perché in fin dei conti sono lì per quello. Allora salgo e mi divincolo un po’ qua e la prima di trovarlo.
Il suo si apre in una parete su in cima, e alzo la mano per salutarlo da lontano quando mi vede. Sotto di lui c’è il mio libro, ne prende una copia e mi viene incontro. Ci siamo già incontrati, noi due, ma mi sembra comunque la prima volta che lo vedo.
“Benvenuto!” Mi dice forte “Vieni, vieni,accomodati!”
E io lo faccio. Mi accomodo.
Ci sono delle sedie dietro lo stand, e libri.
Incontro il suo staff, sua moglie, e chi lavora per lui. Sembrano persone gentili, mi dico. Ma di tempo per discutere con me non ne hanno molto. È pieni di gente che va e gente che viene.
“Oggi tocca alle scolaresche” Mi dice qualcuno. E di questo me ne accorgo perché i bambini sono ovunque. È una cosa strana da vedere. Quest’orgia di marmocchi che sventola le loro dieci mila lek nell’impossibilità di mettersi in fila. E a dirla tutta sono stupito perché in Italia di ragazzini di quell’età scalpitanti come cavalli pazzi nell’attesa di comprare un libro io non ne ho mai visti. Verrebbe da pensare che sono le maestre a costringerli, e all’inizio è questo che penso. Ma loro sono lì, e con le loro economia sanno bene cosa farne. Conoscono nome cognome e titolo di ciò che vogliono, e se quello che vogliono lì non c’è i risparmi rimangono incoccati.
“ Spesso succede come dici tu” Mi racconta il mio editore “Ci sono case editrici che si mettono d’accordo con maestre per far sì che i loro libri vengano scelti o roba simile, ma costa caro. Le maestre spesso vogliono soldi per questo. Ti assicurano delle vendite ma anche loro vogliono la loro parte.”
“Questo quanto costa!” L’uomo si allontana e risponde.
“Se per far leggere un po’ di più è necessaria una cosa come questa, può stare anche bene” continua. Concluso l’affare “il problema è che nemmeno loro leggono quello che obbligano a comprare. I bambini si ritrovano in mano libri orridi e pensano che la letteratura sia tutta così. Capisci che intendo?”
Faccio cenno di sì con la testa, mentre li davanti pare che il mar rosso di lentiggini e zainetti non ne voglia sapere di aprirsi.
Dentro il palazzo fa un caldo tremendo. Il sole batte sulle finestre e senza rendermene conto la fronte mi gronda di sudore.
“Vado a fare due passi” decido.
La mia presenza per il momento non è delle più richieste, e al Panair un’occhiata la voglio dare.
Come dicevo, gli stand sono di una normalità sconcertante. Di cose se ne possono trovare se uno ha voglia di cercare, e ogni tavolo ha quel giusto numero di venditrici che con tono melenso e dandomi del lei mi chiedono “Posso aiutarla in qualcosa?”
Il dare solo un’occhiata non pare concepita come azione.
Gli stand sono dei più diversi. Specializzati in ciò che uno vuole e cerca. Palafitte che si reggono su quattro libri, più per far da numero, che per altro. Vedo Pubblicazioni Cattoliche, Librerie islamiche e Vincoli ortodossi.
Un’occhiata se la merita anche l’ingresso, dove i grandi editori si contendono il pubblico tra sorrisi diabetici e strette di mano al gelsomino. Vedo che le gradi, all’interno dello spazio occupato non hanno solo scaffali per i libri, ma anche spazi dedicati a piccole presentazioni. Se ne stanno lì file di sedie e microfoni in fase di montaggio. Annunci di scrittori pronti a firmare autografi e farsi fare selfie, addirittura!
Perché lo noto, e lo noto bene, che quest’ondata di capitale umano di dosi in autoscatti pare non averne mai abbastanza. Il campo è minato di telefoni intelligenti rivolti verso la propria persona. Sorrisi forzati e pause ben pianificate a catturare il proprio ego e condividerlo col mondo. Camminare diventa un problema perché si rischia di finite nella foto di qualcuno, e quel qualcuno la tua faccia, nella sua foto non ce la vuole.
Comunque cammino qua e la, perché di curiosità ne ho, e non poca.
Delle case editrici albanesi ne so meno di quanto vorrei, e mi piace vedere cosa pubblicano e come lo presentano.
Ci sono stand che più che libri sembra si offrano torte e dolci, stand dove le decorazioni superano in gran numero le pagine stampate e stand dove il nome dell’editore coincide per un buon settanta per cento con l’autore dei libri presenti.
Al piano di sopra la situazione si è calmata, perché l’ora di tornare a casa per i marmocchi è arrivata.
“Che te ne pare?” Mi chiedono.
Io dico che non è male, che mi aspettavo peggio. Ma in realtà non è vero, perché di aspettative ne avevo poche, ma non voglio sembrare maleducato.
“Guarda lì” continua lui, e mi indica con la testa due ragazze ferme, li davanti in una posa statuaria e con il respiro trattenuto “si fermano allo stand, prendono un libro in mano, e ci si fotografano.” Di comprare non se ne parla.
#the#best#book#ever.
Ogni tanto arriva qualcuno che il mio libro lo afferra e inizia pure a leggerlo. Ci sono due ragazze che mi chiedono il prezzo.
Mi guardano, lo guardano e decido di dirglielo “sono l’autore” faccio con quel mix di umiltà fasulla e accento esotico che mi da l’ignoranza della lingua “se avete qualche domanda..”
“È adatto ad una ragazza di quindici anni?” Mi chiede una delle due, al più grande, mi viene da dire “Lo vuole mia sorella ma, dici che è adatto?”
E lì rimango interdetto. Interdetto davvero. Non so cosa dire. Balbetto qualcosa e poi interviene l’editore che quel sì lo condisce bene bene con un senso della compravendita che a me a quanto pare manca.
Alla fine il libro lo comprano, e vogliono pure un selfie con me, le tipe.
Di varietà umana lì ce n’è a iosa. Dico davvero. Vengono persone di ogni genere, se volete.
“Quanto costa questo?” Chiede un uomo sulla cinquantina. Cinquant’anni gli darei, non di meno, ma forse di più. È tutto agghindato, capelli pettinati all’indietro, sua moglie vestita come se fosse appena uscita da una serata di gala.
“Ottocento Lek” Risponde la venditrice.
“Facciamo cinquecento?”Insiste l’uomo. E mi viene da pensare che per essere uno che va in giro come se fosse lo zio balcanico di 50 cent, attaccarsi a trecento Lek non gli fa onore.
“Non posso, mi dispiace.”
La venditrice è anche la moglie del mio editore. Una signora in gamba, sa quello che fa quando parla con le persone. “Ottocento è il prezzo già scontato.”
“È caro” Insiste lui. Sua figlia ha già il libro in mano. L’affare è concluso e lo sappiamo tutti, ma lo spettacolo deve continuare.
“Di questo non posso discutere. Se vendessimo a meno andremmo in rovina. Consideri che abbiamo i diritti d’autore da pagare sulle pubblicazioni straniere.”
“Altre case editrici vendono a meno sugli stranieri”
“Altre case editrici non pagano i diritti d’autore.” Risponde lei seccata.
E seccato inizio a essere anch’io.
“E la colpa di chi è?” Fa lui, in tono solenne, e guarda me, lo zio, guarda me e muove la mano “Del Comunismo? Del capitalismo? O forse” E qui fa una lunga pausa “Nostra.”
Tira fuori la banconota e se ne separa come se fosse un figlio chiamato alla leva “Io la capisco, signora, la capisco. Io sono” E qui mastica un nome che non arrivo a capire “Sono scrittore, poeta, opinionista e oppositore del regime.”
Osanna alla rivoluzione!
“Sono sicuro che ti piacerà” Fa dall’altra parte il mio editore. È lì che discute con delle ragazze che si passano un libro in mano. L’uomo mette su lo spettacolo del miglior libro per ragazze della loro età sul mercato, e qui non posso dire niente, in un certo senso è il suo lavoro.
Ma “questo non posso comprarlo!” Risponde la ragazza, e lui si arrende prima del solito e passa ad altro.
Mi rendo conto che il libro in questione, in pochi possono comprarlo. Il titolo a quanto pare non è dei più benvisti. Bacio, e amore si seguono uno sopra l’altro. “Si immagina se mio padre lo vedesse?” Di solito rispondono così. Ma di comprarlo hanno voglia perché se lo girano in mano quasi a consumarlo.
“È sempre così” Dice l’editore “Metti la parola sbagliata nel titolo e a malapena lo guardano. Non che ci sia roba strana dentro, t’assicuro. Ma guardali, se sono vicini ai loro genitori fingono di non vederli, e se lo comprano, se lo passano di nascosto.”
Prende un altro libro e me lo passa “Pure questo sta andando peggio del previsto” dice “ In Italia è stato un best seller, parla di una ragazza di sedici anni rimasta incinta. Qui nemmeno fingono di guardarlo.”
Ed ha ragione, perché lo vedo. Con i miei occhi lo vedo. Di giovani accompagnati dai genitori che scannerizzano moralmente libri su libri cene sono, e non pochi.
Cosa possa essere adatto e cosa no, questo non so dirvelo. A quanto pare, la parola Bacio, Amore e sedicenni gravide, sono un tabù.
Per il resto non saprei.
Giro qua e la. Le attività si sprecano, se volete. Presentazioni su presentazioni. Scrittori introdotti come i nuovi astri nascenti della letteratura balcanica si accumulano uno sopra l’altro, senza lasciarsi spazio di respirare.
Vedo volti noti al cui battesimo non ero presente. Sono facce senza un nome che vedo nella tv che abbiamo in cucina e dove per dovere patriottico si guardano programmi in cui quei volti si scambiano uno dopo l’altro.
Mi dico che mio padre di sicuro sa chi sono.
A star dentro manca l’aria, e a star fuori d’aria ce n’è troppa.
Le auto sono parcheggiate di fronte al palazzo dei congressi con quell’astuzia da giocatore di Tetris di cui non arrivo tutt’ora a comprendere la logica, ma che invidio. La strada è larga, e la folla non così folta.
La sera quando torno a casa in tv del Panair ne parlano un po’ tutti. Piccoli servizi di pochi secondi in cui i soliti quattro volti descrivono quanto sia emozionante lavorare nel panorama letterario albanese. Cambio una, due, tre volte, ma le facce che s’arrogano il diritto di parole sono sempre le solite.
Il giorno dopo alcune di quelle facce le rivedo, e adesso ne so pure il nome! Tanto la cosa mi entusiasma.
Di giornalisti lì fuori se ne vedono tanti, fanno interviste agli editori, perché anche stasera il loro volto allegro mi faccia compagnia durante la cena. Le domande sono le solite per tutti, e le descrizioni che danno dei libri paiono non cambiare di una virgola. Tolkien e Dan Brown che diventano cugini di penna.
Alla fine un selfie, se lo fanno.
E ne ho la bacheca intasata, ve lo giuro.
Ho la bacheca intasata di selfie di case editrici, selfie di scrittori, selfie di ammiratori e libri che a quanto pare si fotografano da soli.
“Quest’anno le vendite sono state più basse” sento dire in giro. Ma come?! Mi viene da pensare. Stando alla rete tutti stanno leggendo tutto.
E invece no. La dannata, mente.
Per il resto procede tutto normalmente. Ogni tanto si fa vivo un qualche ministro, da la sua benedizione e si allontana. E poi arriva il momento del presidente.
Lui al Panair non si fa vivo, questo no. Ma a quanto pare l’edificio che ci sta davanti altro non è che il posto in cui accoglie gli ospiti o cose simili. È il momento per lui di tornare a casa, e se arriva il presidente, le macchina parcheggiate lì dove per tre giorni hanno fatto bella mostra non possono più stare. I poliziotti diventano tutti impavidi difensori della giustizia stradale e vengono su, di corsa, ad avvertire chiunque li abbia parcheggiato che se entro cinque minuti non sposteranno l’auto si faranno multe su multe e le auto verranno portate via col carro attrezzi. Mai vista tanta solerzia tutta insieme.
Le macchine si spostano e il ministro arriva. Mi chiedo se sa che davanti casa sua c’è una fiera del libro.
Al suo arrivo la piazza che ospitava auto adesso è invasa da persona. Provano a farsi un selfie e a cogliere la sua silhouette da lì dietro.
“Per favore spostati” mi sento dire ovunque mi muova. “Per favore, spostati” è diventato praticamente il mio secondo nome.
Si sventolano libri e si fa attenzione affinché si intravedano bene, nella foto.
Titolo, autore. Il prezzo ogni tanto.
E l’ultimo giorno, mentre me ne vado con una copia del mio libro in mano, ho il palazzo dei congressi alle spalle. Tiro fuori il telefono e mi arrendo al potente.
Lo rivolgo verso di me, e me lo faccio anch’io un selfie.