“Grazie Italia”. Quante volte l’abbiamo sentito, quante volte ci ha strappato un po’ di commozione e quante volte invece ci ha portato ad alzare un sopracciglio?
L’abbiamo visto e sentito tutti ancora una volta, durante il recente festival di Sanremo ad opera della bella e brava Alketa Vejsiu la cui genuina felicità e gratitudine ha fatto irruzione nelle case degli italiani dal palco dell’Ariston.
Si capisce che non è solo una questione di essere d’accordo o meno, ma la questione tempo.
Ci si domanda: perché dopo tutto questo tempo, ossia a tre decenni dalla fine del comunismo e ad almeno due in cui è finito l’esodo di massa? E poi, cosa c’entra lei, alla fine?
C’entra invece , e molto, se consideriamo che è una donna di spettacolo, e proprio sullo spettacolo negli anni della dittatura si è formata l’idea di Italia nell’immaginario collettivo albanese: tramite la TV di stato, mamma Rai, che avidamente gli albanesi vedevano di nascosto per tutti gli anni settanta e ottanta, con le loro antenne improvvisate nascoste negli interstizi dei mobili di casa, quell’immagine splendida splendente, tanto per usare proprio una espressione di un canone di quegli anni, e che non è mai esistita nella realtà.
Si, gli albanesi hanno amato e ammirato l’Italia, e lo fanno ancora, ma non quella reale, bensì quella immaginaria scaturita da quelle immagini che andavano sovrapponendosi alle residue reminiscenze – seppur sbiadite nel tempo – dell’Italia imperiale e fascista.
Un’ Italia ricca e potente, la terra delle belle donne, di solito bionde, era questa l’immagine della donna italiana in tv, degli uomini di successo e di classe, dove si coniugavano opportunità e tradizioni, dove alla fine erano tutti ricchi perché era quello stesso stile di vita che ti portava alla ricchezza.
Una sorta di sogno americano a due passi da casa, sulle rive del Mediterraneo, e che non aveva alcuna possibilità di essere contraddetto o smentito dalla realtà, semplicemente perché la realtà italiana non era accessibile, e conosceva come controcanto la non più credibile (e infatti non piu’ creduta) propaganda del regime comunista.
E allora capiamo meglio la felicità di Alketa, il suo senso di realizzazione nel trovarsi al festival di Sanremo, come lei stessa ha detto: perché proprio quell’evento, quel luogo, era l’epicentro simbolico di quella Italia che arrivava dalle antenne clandestine dei tempi del regime.
Gli albanesi sono tributari di un sogno mai esistito in Italia. Mentre il sogno americano l’hanno inventato e realizzato gli americani, il sogno italiano, questa sorta di utopia capitalistica, l’hanno inventata gli albanesi. Loro sono arrivati al sogno americano passando dall’utopia italiana.
Per assurdo il nuovo capitalismo albanese ha realizzato l’utopia di Berlusconi senza saperlo e senza volerlo.
Questo modello immaginario, è calato talmente nella mente collettiva albanese che ne ha cambiato per sempre i connotati, al punto che ora hanno superato dei maestri che non sono mai esistiti: Tirana o meglio la Tirana di Alketa Vejsiu e dei nuovi ricchi albanesi, quella della polarizzazione totale della società, (d’altronde esiste in ogni vero capitalismo degno di questo nome) è divenuta infatti splendida splendente, popolata di belle donne bionde accanto a uomini ricchi e di successo, iper moderna, dove è lo stesso stile di vita che produce la ricchezza.
Paradossalmente, sono diventati italiani. Ma degli italiani d’un tipo creato dalla loro mente.
Alketa ringrazia quella Italia lì, diversa da quella che conoscono 600 mila albanesi che ci vivono.
Allora grazie Italia, si, ma grazie di un colossale prestito culturale di una cultura che non è mai esistita.
Leggi anche
- Il monologo di Alketa Vejsiu
- Il problema non è Alketa, è Sanremo , di Arbër Agalliu