Da più parti, in questi giorni, si sono alzate polemiche per il modo in cui è stato presentato il caso di cronaca, di qualche giorno fa, che ha coinvolto un guidatore italiano a Milano, e una donna incinta egiziana, che, in un incidente causato dal primo, ha perso il figlio in grembo e un bambino di quattro anni che teneva per mano.
Quando le vittime sono egiziane e l’investitore italiano, si è notato, le categorizzazioni etniche improvvisamente scompaiono dalla titolazione principale e secondaria; al contrario, a ruoli invertiti, la categoria etnica diventa l’attribuzione di ruolo prevalente o unica del ‘carnefice’ e giù con le forche dei commentatori online, senza che le testate operino alcuna moderazione.
È forse la prima volta che si alza un movimento di opinione sensibile rispetto alle pratiche quotidiane di razzismo, usate dal giornalismo italiano per riprodurre quella dialettica della paura dell’Altro che, come sappiamo, produce consenso e vendite. Ciò nonostante, nessuno, specialmente fra i politici, ha ancora riflettuto sulla urgenza di approvare un codice deontologico che garantisca le categorie sensibili, evitando discriminazioni del genere, che continuano comunque a ripetersi.
Ad esempio, oggi, al Tg3 Regione Veneto si parlava della cattura del cinese che aveva spruzzato del mastice in viso alla moglie, tentando poi di dare fuoco alla casa. Si parla quindi di femminicidio e violenza di genere, un tema molto caldo degli ultimi tempi e che ha visto molte donne straniere vittime di italiani. La giornalista ha commentato il gesto del coniuge cinese dicendo: “Anche i cinesi odiano le donne”, come nel titolo di un romanzo di Giorgio Scerbanenco.
Quando, molto più di frequente, il colpevole di un atto di femminicidio è un italiano si tende, invece, a descrivere l’evento come un ‘gesto folle’. Ciò sposta la responsabilità dell’accaduto da valori e atteggiamenti collettivi di matrice culturale, alle responsabilità individuali, e ai fattori psicologici.
Il razzismo sta proprio qui: nel far finta che la cultura italiana non sia terribilmente maschilista, e nell’additare a culture che non conosciamo (ovviamente in Cina non si può parlare di monoculturalismo) un certo grado di arretratezza e di violenza, presumibilmente immutabile anche dopo il processo migratorio.