Quanta pioggia! Mi sembra di vivere in un angolo grigio e triste di qualche romanzo di Kadare. Come il cronista de “I tamburi della pioggia” che raccoglie nei bar le gesta e la gloria dei personaggi di questi tempi…
Ho viaggiato di nuovo verso il Nord, questa volta sulla vecchia strada costruita dagli italiani. C’è un corso d’acqua nei pressi di Zheje (provincia di Laç) che emana sempre un odore sgradevole per la presenza di acque sulfuree. Il livello dell’acqua si e innalzato perché ha piovuto, ma non è questa la sorpresa: l’acqua è rossa. Sembra un fiume di sangue. Qui ha avuto luogo una delle più importati e sanguinose battaglie di Scanderbeg contro i turchi. Forse sarà stato cosi quel campo di battaglia; fiumi di sangue e l’odore sgradevole dei corpi putrefatti dei soldati insepolti.
Avrei preferito essere piccolo e sentire la fine della leggenda: “…e così ogni anno quel fiume diventa rosso come il sangue dei caduti”. Ma io so cos’è successo. Hanno lacerato, sventrato, divorato la montagna. E la pioggia scorre nelle sue ferite portando via quella terra rossiccia, color sangue. Il prezzo dello sviluppo. Ho contato ben cinque fabbriche di cemento e calce tra Kruja e Lezha. Noto una grandissima e moderna lassù in collina. Mi dicono il nome del proprietario, un prestanome. Anche il più grande centro commerciale che sta sorgendo nei pressi di Farkë, ha un prestanome. Qui e tutto in prestito: i nomi, i sogni; ci deve essere anche il palazzo che raccoglie ed esamina tutto, proprio come nel libro di Kadare.
Davanti alla casa dove abito c’è ancora un pezzo di terra non occupata. È piena di pozzanghere; un perfetto rifugio per le rane che ogni tanto si mettono a cantare in coro. Un canto disperato, più che richiami d’amore perché l’estate è vicina e con il suo arrivo, l’acqua sparirà. Non sono le stesse che Caiazza ha descritto nel suo libro giacché mi trovo nella parte opposta della città.
Pensavo che fosse sfuggito ai tecnici di Rama ma mi sbagliavo. C’è una vera e propria strategia dietro questo degrado. Quando verranno a costruire sembrerà tutto meno drammatico. Neanche un piccolo giardino con dieci alberi e tre panchine: niente da fare, il parco non rende.
Avevo visto lo stesso degrado nella zona più elegante della città. Si tratta della così detta “piramide” ex-museo del dittatore. Chiusi tutti i bar che l’anno scorso pullulavano di giovani, perlopiù studenti. Speravo che lo stessero ristrutturando ma invece non si sa. Quella strategia del degrado mi ha messo in pensiero.
Strano destino quello della “piramide”
La chiamano così per la forma che ha. Una piramide in onore del faraone. Ha servito ben poco allo scopo, perché e stata scoperta e profanata presto. Ha ospitato anche il Centro Internazionale della Cultura e gli studi di Top Channel, una TV privata, la più importante dell’Albania. Ed ora è in rovina. Come se non volesse vivere senza la sua stella rossa che le illuminava la cima. Ero ancora in Albania quando l’avevano tolta. La stessa sorte della stella del mosaico sulla facciata del Museo Nazionale.
Una corsa contro il tempo per cancellare i simboli di un sistema già morto. Come se nascondessero qualcosa. Come se ciò non fosse mai avvenuto. Nascondere cinquant’anni di storia; non si sa se di vergogna o di dolore. Perché nascondere il dolore? Perché nascondere la vergogna degli altri? O forse non siamo stati solo vittime?
Ho sentito che a Scutari hanno rimosso anche il monumento dedicato ai cinque eroi di Vig. Non si sa più come occupare il tempo. Conosco bene la loro storia giacché sono nato e cresciuto da quelle parti. Da piccolo ho partecipato alla festa che si faceva in loro ricordo. Anche la popolazione festeggiava, perché quella festa coincideva con l’antica sagra del formaggio.
Là non c’era stata una questione tra comunisti partigiani e oppositori come spesso viene venduta. Quei cinque partigiani erano andati a chiedere la Besa per combattere i tedeschi. Furono uccisi in un agguato dopo avere rifiutato di consegnare le armi. Un crimine vergognoso anche per il Kanun che non permetteva che una persona venisse ucciso quando era stato ospite di qualcuno. Altrimenti quel qualcuno doveva vendicare l’ospite ucciso. Furono i partigiani comunisti, a modo loro, a vendicare gli amici rimasti insepolti per giorni.
Ora stanno rinascendo nuovi simboli che erano caduti in oblio; quelli religiosi. Accanto alla sede del ministero della difesa prende forma una nuova chiesa. Gli ortodossi hanno voluto a tutti i costi un luogo di culto più vicino al centro. In nome dell’uguaglianza. In centro c’era già una piccola ma graziosa moschea. Non molto lontana, si trova la cattedrale di S. Paolo costruita negli anni 90. Mancava la chiesa ortodossa.
La preoccupazione dei generali senza divisa e alle stelle. “Il ministero della difesa non può più avere la sede lì – scuotono la testa sconsolati – perché quella chiesa sarà un covo di spie greche e non ci saranno più segreti”. Come i dervisci – spie che precedevano le orde ottomane.
L’Albania ha vissuto il suo comunismo come sistema chiuso. Si era preparata a vivere in una condizione di autopoiesi. Verosimile all’universo-sfera di Platone. Ma il demiurgo che la plasmò non aveva calcolato la corruzione necessaria. Lui uccise le contraddizioni, le energie. L’entropia raggiunse molto presto l’equilibrio e il sistema morì. Ora c’è sin troppa corruzione. E c’è di più: il rumore che viene dall’esterno soffoca i bisbigli interni. Non a caso qui conoscono meglio i diplomatici europei o americani che il vicino di casa. Chi deve governare necessita della benedizione delle diplomazie occidentali più del consenso interno. E per avere il consenso interno bisogna mostrare al popolo di essere “gli unti” dell’America e dell’Europa.
“Avrebbero potuto fare così e così…” penso mentre guardo le strade di Tirana che non riescono mai a smaltire il traffico. Ma ben presto mi rendo conto di fare dei calcoli degni del generale dell’armata morta. L’Albania è la terra delle occasioni perdute. Forse da qui nasce l’orgoglio albanese: “abbiamo perso tutte le occasioni ma siamo riusciti ugualmente a sopravvivere”.
Quanta pioggia! Le terre del Nord sono di nuovo sott’acqua. Sono in molti che restano in ascolto; aspettano i tamburi e l’epilogo: “…mentre la sua anima se ne andava sotto la pioggia”.