In questi giorni in Kosovo si è votato, io ho letto una storia e l’ho raccolta. Le notizie informano, le narrazioni, in qualche caso, lo fanno con più partecipazione, sono più empatiche e se piacciono, si sedimentano meglio nei nostri ricordi. Questa, di terza mano, pescata in un libro di un bravo giornalista italiano Paolo Rumiz (uno raro) è il ritratto di una persona, della sua scelta e del suo carattere montanaro. Affresco di codici e valori.
Paolo Rumiz da La leggenda dei monti naviganti“Aveva una barba biblica, inestricabile come un roveto ardente, mani da fabbro ferraio e occhi da brigante buono. Tutto il suo fisico parlava. Portava stampata addosso l’ agilità del camoscio, l’impazienza di darsi da fare, un altruismo febbrile ma senza ingenuità. Era la quintessenza dell’anima montanara, quella speciale dei biellesi. Era figlio della più grande scarpata d’Europa, la muraglia che, poco a monte di Biella, si impenna per quattromila metri sulla linea d’urto che – milioni di anni fa – aveva generato le Alpi. Una faccia antica, da profeta Ezechiele.
Francesco Bider, operaio tessile, mi impressionò prima ancora di aprir bocca.
Ero andato a parlare della guerra in Bosnia nella sua città e lui, ruvido Robin Hood, fece domande toste, che indicavano come nella sua anima quello fosse un tema digerito con sofferenza. Mi piacque, era diverso da tutti gli altri, e lo invitai a cena per continuare il discorso. Ci fu sintonia su una cosa: il pacifismo non bastava. Che pacifismo era quello che non consentiva alle vittime di difendersi? Che roba era quel restare a guardare? Cosa se non l’inerzia, l’incredulità e il silenzio degli innocenti aveva consentito a una minoranza di assassini e ladri di imporre una guerra a una maggioranza disarmata e pacifista? Per questo motivo mi ero scontrato con dei pacifisti. Per questo motivo avevo incrinato persino delle vecchie amicizie.
Lui cristiano tutto d’un pezzo, disse che la guerra contro i mussulmani –quelli moderati di Bosnia erano state le prime vittime di un conflitto benedetto anche da religiosi cattolici e pope ortodossi – era un’onda aggressiva destinata a durare, “qualcosa di analogo a quanto è accaduto agli ebrei”.
Il massacro di Srebrenica, in cui migliaia di mussulmani, complici l’Europa e il modo, furono scannati nella più atroce ecatombe europea dopo il ’45, non era ancora avvenuto, ma lui già leggeva gli eventi come inizio di un’onda lunga, l’avvio di uno scontro che sarebbe durato chissà quanto. Il suo discorso era lucido, pieno di intrinseca coerenza. Mi rimase impresso a lungo.
Non ci sentimmo per quattro anni. Riapparve nella primavera del ’99, ai primi segni della crisi kosovara, quando le milizie serbe di Milosevic – le stesse della Bosnia – iniziarono la pulizia etnica contro gli albanesi (in maggioranza mussulmani) della provincia ex iugoslava del Sud. Mi cercava perché in un mio libro dedicato alla guerra aveva ritrovato tracce della nostra chiacchierata. C’ era scritto che se il male era “banale”, come diceva Hannah Arendt, il bene era “imbecille”, incapace di organizzare un minimo di autodifesa. Era “complice” dell’orrore, con la sua impreveggenza.
Scrisse lettere, telefonò, disse che non si poteva restare con le mani in mano. Era scandalizzato dall’assenteismo dell’Europa di fronte a una tragedia simile alla Guerra civile spagnola: “Allora i democratici si indignarono e partirono per dare una mano, oggi nessuno rischia più la vita per una causa”. Spiegò che se non avessimo aiutato quei mussulmani europei, avremmo dato spazio all’ Islam estremo, accelerando uno scontro frontale tra occidente e Oriente. Voleva fare “qualcosa di importante”; capiva che la radice del male stava a Belgrado, ma a Belgrado stava anche la soluzione del conflitto.Un’alba tornai dal Montenegro, dove ero andato a monitorare per “la Repubblica” i primi bombardamenti della Nato sulla Iugoslavia, e lo trovai ad aspettarmi sotto l’ufficio. Piovviginava, avevo ancora con me le mie valige, il portiere mi disse che c’era un tipo strano che mi aspettava in macchina da giorni. Pensai: Francesco Bider da Biella. Difatti era lui. Dormiva nell’abitacolo della sua quattro per quattro verde militare, disteso come una mummia nel sacco a pelo, con il barbone mesopotamico increspato dal respiro. Battei al finestrino: si alzò di scatto come un lagunare allenato a situazioni estreme. Andammo a farci una buona colazione nella città mezza deserta.
Bevendo il caffè disse: “Non potevo partire senza vederti”. Stava per andare in Albania, a dare una mano nei campi profughi. Aveva preso un periodo di aspettativa dal lavoro, le ferie non bastavano. Voleva star fuori molto a lungo. “La barba è la mia bandiera” disse. E raccontò che durante la naia, quando faceva l’alpino in Piemonte, aveva rifiutato di tagliarsela andando incontro nper questo a non pochi guai. Stava in caserma con tre dei suoi cinque fratelli, caso unico nella storia dell’Italia democratica. Parlò del film di Kusturica, Gatto nero, gatto bianco, e dei simboli in esso contenuti sul gioco tra il bene e il male, la morte e la vita.
Quando sparì come un bracconiere a bordo della jeep, sentii che non mi aveva detto tutto. Francesco aveva un suo disegno, che non comunicava. Mi aveva chiesto contatti, numeri di telefono, informazioni logistiche, appoggi presso l’Onu, ma mi era sembrato un pretesto. Lui voleva altro: forse un viatico, un lasciapassare per un viaggio completamente nuovo, in terre incognite. Ma non arrivai a pensare, in quel momento, che la sua voglia di fare, unita alla professione cristiana e al suo essere “di montagna”, avrebbe portato la testimonianza fino al sacrificio.
Mi telefonò ancora due volte. La prima da Napoli, dove era andato trovare il suo ex comandante degli Alpini, ora generale Borriero: anche a lui aveva chiesto consigli, ma l’incontro, disse, non gli aveva chiarito nulla. Poi da Kukes, in Albania, dove aveva visto l’inferno di decine di migliaia di rifugiati nelle tende sotto la pioggia, nel fango. Aveva cercato di rendersi utile come volontario, ma senza riuscirci. Il problema, disse, stava altrove. In Kosovo. Fu il suo ultimo segnale. Sparì, senza chiamare la famiglia, i cinque fratelli. Nessuno. Il resto è storia nota. La morte in battaglia con gli uomini dell’Uck, le forze indipendentiste del Kosovo. La sepoltura, l’imbarazzante disinteresse delle autorità italiane. E nemmeno una riga di condoglianze alla famiglia.
A distanza di anni la sua figura mi inquieta ancora. Incontro il barbuto biellese nei sogni, a spasso per una cengia di montagna, o nelle periferie metropolitane. Mi compare accanto a sorpresa, nel suo stile. A volte penso che non sia affatto morto. Un po’ alla volta ho appreso altri particolari su di lui. Del suo lavoro in aiuto dei drogati, dell’impiego umanitario in condizioni estreme, fino alla Bosnia. Anche quei pezzi di vita riemergono all’improvviso. Da amici albanesi, da operatori sociali, volontari dell’ ex Iugoslavia. Oppure dal fratello Alfredo, che mi cercò subito dopo la sua morte in battaglia e mi aiutò a capire.
C’erano poesie, racconti che lui aveva lasciato. Storie delicate di fiori, montagne, alberi, donne perdute. Come tutti i montanari solitari, Francesco sapeva la forza delle parole……………Ma sapeva anche che la parola, senza l’azione, è un limite greve, se non un male.
Nella sua vita e nella sua morte c’era tutta la storia di quel magnifico luogo-rifugio ai piedi del Rosa dove pianura e alpe si scontrano senza mediazioni. C’erano i pastori uraloaltaici che l’avevano colonizzata. I nomadi israeliti che avevano trovato rifugio in villaggi sperduti, come i Triverio, il cognome di sua madre. I martiri della Legione Tebea, venerati spontaneamente dalle genti di montagna. Un paganesimo delle fonti e delle sacre cime che sposò il cristianesimo e generò formidabili santuari come quello do Oropa, costruito dagli antenati dei Bider. Il mito dei Walser, il popolo venuto dal Nord che colonizzò le Alpi a quote mai sfiorate da insediamenti umani. La tradizione mazziniana di una terra cattolica, laica e religiosissima insieme, come succede spesso sulle montagne. Forse la sua faccia mi aveva colpito per questo. Lo portava scritto come in un libro…….….
Crebbe seguendo codici d’ onore non scritti
. Capì da un leggendario armaiolo, Arnido Grosso, che la civiltà di montagna era un tesoro di solidarietà e andava difesa dai “sacrilegi della civiltà moderna”. Dalla madre Maria – una gran donna – imparò un impegno cristiano fatto di testimonianze generose, forti, totali.“Una volta che il male lo riconosci, devi affrontarlo.” Era questa la filosofia di Francesco. Da quel momento il male diventa “una questione personale” e non puoi più tirarti indietro. Per combattere il male, la generazione prima della sua aveva affrontato il nazifascismo su quelle montagne. Per lo stesso motivo la guerra in Bosnia non poteva risolversi con qualche camion di medicine. Per questo Bider era entrato nell’Uck. A un friulano che lo aveva incontrato in Albania, in una tendopoli di profughi sommersi dal fango, poco prima di morire aveva confidato: “Io sono un pacifista e un antimilitarista, ma mi sono arruolato perché voglio battermi per quel bambino che ci sta chiedendo l’elemosina e soprattutto per quella bambina che ci mostra la lingua in mezzo a tutta questa desolazione”…….…..
Quando gli venne chiesto che senso avesse morire se c’era ormai la certezza di una fine rapida del conflitto grazie alle bombe della Nato, rispose: “Questi sono solo sogni, come lo sono le guerre chirurgiche! Le guerre sono tutte uguali: uomo contro uomo”. Paolo Rumiz da La leggenda dei monti naviganti Unico civile occidentale caduto in Kosovo durante la guerra, a lui, la città di Pec dovrebbe avere dedicato il suo giardino pubblico con una lapide in granito.