Non è semplice parlare di uomini. Qualsiasi cosa detta è motivo di dibattiti senza fine, dove vale tutto e il contrario di tutto.Se dico ” gli uomini sono degli esseri che ci completano” c’è il coro del ” tu sei un’ingenua“. Se dico “gli uomini che bastardi” c’è il coro di quelle che “ siccome tu hai avuto brutte esperienze, non è detto che siano tutti così“. Tutte le considerazioni a riguardo sembrano essere unicamente di “pancia”, una riflessione più razionale e analitica sembra impresa ardua.
Bene. Iniziamo con il dire che io non sono nè un’ingenua, nè tantomeno penso che gli uomini abbiano qualche difetto di fabbricazione. E vorrei davvero uniformarmi al mio interlocutore e non fare polemiche su polemiche: purtroppo non mi riesce. Il vero problema non sono gli uomini, non sono le donne, sono piuttosto concetti sui quali si costruiscono le relazioni. E nel momento in cui tenti di analizzare tali concetti pensano che tu – cioè io – tendi ad essere analitica e disillusa in seguito ad esperienze che rappresentano DELUSIONI. O credono che in realtà non ci sia proprio nulla da analizzare – e questa credenza è davvero pessima – in quanto l’amore – almeno a detta loro – è quella cecità che ti fa tremare le gambe e sudare le mani. Una questione squisitamente ormonale insomma, dove la nostra parte più razionale e intellettiva non svolge nessuna funzione (Sic!). Imputare un modo di pensare a una “delusione” è riprendere i soliti concetti di bianco/nero o normalità/anormalità. Se io avessi avuto una storia d’amore “felice” – secondo la versione popolare della felicità nella coppia – sarei stata una persona “normale” ed avrei avuto una visione “normale” del rapporto uomo-donna e la penserei in maniera “normale”. Ridurre tutto a una questione empirica, di esperienza, è voler negare la capacità intellettiva dell’essere umano. Senz’altro le esperienze ci plasmano, ci rendono ciò che siamo, ma io credo che le esperienze che decidiamo di fare siano dettate dal bagaglio culturale che ci portiamo dietro. Dunque una corretta visione – per quanto ciò sia umanamente possibile – dei rapporti di genere, non dovrebbe basarsi su esperienze individuali, ma su riflessioni più analitiche. Poi credo che pensare alla “delusione” come il punto di deviazione dalla retta via, non sia corretto. Anzi, la delusione potrebbe rappresentare la spaccatura oltre la quale ci siamo noi, oltre la quale definiamo la nostra verità, e non ciò che la società ritiene veritiero per noi. Un passo ulteriore che si potrebbe fare è di non considerare la vita un susseguirsi di ILLUSIONI/DISSILUSIONI. Si spera che nel momento in cui facciamo determinate scelte, non prendiamo fischi per fiaschi. Si spera che l’amore non ci abbia rese gatte in calore, convinte di aver trovato l’acqua nel deserto. O detto in altri termini, certo che io ho avuto esperienze che sono finite come non avrei voluto che finissero, ma ad essere sincera, ragionare in termini di ” tu per me sei stato una delusione” proprio non mi riesce. La delusione è legata prevalentemente a un discorso di aspettative, e io avendo sempre ritenuto l’amore, non come qualcosa che faceva perdere ma piuttosto acquistare la ragione, sono sempre rimasta alquanto lucida, avendo una vaga consapevolezza di chi mi trovavo di fronte. Ora la domanda legittima sarebbe: ” ma se hai tutta questa lucidità, perchè permetti all’altra persona di entrare nella tua vita?”. Le risposte potrebbero essere varie. Si è inconsciamente convinte da dover fare da madre ai propri compagni, con il conseguente atteggiamento “ascolto-capisco-perdono” – peccato che dall’altra parte ci sia l’atteggiamento del figlio ingrato!-. C’è la speranza di poter plasmare l’altro. La famosa insinuazione ” voi donne volete sempre cambiarci” conserva un qualche fondo di verità, e volontà di “educare” l’altro credo che derivi dal famoso atteggiamento materno di cui sopra. Perchè si crede che l’uomo sia l’antidoto alla solitudine, che l’uomo sia l’antidoto alla solitudine che ci rende complete, che l’uomo sia la nostra salvezza terrena (… non riesco a trattenere le risate…). La cosa davvero triste è che questi modi di pensare siano continuati fino ad oggi, nonostante delle alternative sui rapporti di genere nel corso degli ultimi secoli siano state proposte. Mary Wollstonecraft – giusto per citare un’antesignana di tutti i femminismi- nel suo capolavoro “Sui diritti delle donne” (1791) invita le donne a sviluppare il logos – ovvero la ragione – da sempre considerata prerogativa maschile e a liberarsi della volontà di piacere agli uomini. E se non tanto tempo fa una donna con una certa rilevanza pubblica come Rosy Bindi è arrivata a dire ” Non sono una donna a sua disposizione”, può solo significare che non portiamo più le parrucche come nel 1700, ma l’essenza dei rapporti di genere è simile. E noi donne crediamo di essere libere, senza renderci conto che ci plasmiamo in base a come il capriccio dell’uomo ci vorrebbe. La cosa ancora più triste è che si crede che le donne non abbiano più bisogno del femminismo, in quanto emancipate. Ora, io dico, è vero che noi donne andiamo a lavorare, fumiamo, andiamo a ballare, ci vestiamo con abiti succinti, ma questa emancipazione “formale” è vera emancipazione? (Tralascio qua il discorso del femminicidio e altre questioni meno esistenziali) Nel momento in cui vediamo nell’uomo la nostra salvezza e accettiamo di essere l’elemento incompleto alla ricerca del principe azzurro, io credo che l’emancipazione sia assolutamente inesistente. Non voglio essere fraintesa. Siamo tutti incompleti, ed è proprio nei rapporti con gli altri che ci riconosciamo in quanto esseri viventi. Ma vedere in un essere umano la salvezza è porsi in una posizione subalterna, riconoscergli una qualche grandezza che in noi non è presente, significa abdicare al proprio io e dimenticarsi che i nostri compagni/padri/ fratelli sono esseri finiti e limitati al pari di noi. Considerare il lato “formale” non è un qualcosa che affligge solo il femminismo, riguarda tutti gli ambiti umani, credo che sia qualcosa di puramente ontologico, legato a ciò che l’uomo è da sempre, non imputabile unicamente a come la nostra società è. Giudicare l’emancipazione basandosi unicamente su elementi esteriori, è deviante e porta altresì ai cosiddetti conflitti culturali. Un esempio potrebbe essere la credenza che noi siamo libere perchè portiamo i capelli al vento e le musulmane no perchè portano il velo. Senza considerare che nel momento in cui decidiamo di indossare un qualcosa, probabilmente non decidiamo in base alla nostra coscienza ma per vincoli culturali e per assomigliare alla velina di turno. E lo stesso discorso può essere fatto per chi porta il velo, ovvio che c’è chi lo porta perchè deve, ma nel momento in cui diventa una scelta consapevole della donna…. bè questa è libertà, questa è emancipazione.
In conclusione, un’ emancipazione che non rivaluti i rapporti di genere, che non parli di consapevolezza, che non ponga al primo piano il logos, focalizzandosi su una minigonna o su un velo, non merita il nome di emancipazione, e le donne così come gli uomini, non dovrebbero farsi abbagliare da esteriorità non dettate da scelte interiori.