Infine ci siamo. Settembre è arrivato con gli abiti già inzuppati dai lunghi tifoni estivi, i tempi e i disastri li dettano le borse con i loro arcani strumenti: spread, bond, rating, deficit, default. Nonostante “le tante riunioni”, “i tanti salvataggi” le notizie che provengono dai mercati continuano a segnare brutto tempo.
Siamo alla Grecia e non siamo la Grecia. Il quadro a tinte fosche in cui naviga l’Italietta è presto descritto: il disfacimento è sistemico e le tempeste di agosto l’hanno mostrato chiaramente. Nelle borse regna il caos, Euro in calo, Europa lacerata, Usa declassati, Cina alla finestra di una nuova bolla speculativa. L’austerity cala sulla nuova vittima che ha tutte le sembianze del nostro stivale. Spagna, Portogallo e Irlanda seguono a breve distanza consapevoli a loro modo di essere già costrette a intraprendere una “cura” greca.
Il meccanismo che viene imposto tra le maschere delle privatizzazioni, del pareggio di bilancio e dell’austerity è il contrario di una cura. In un anno di terapia la Grecia ha visto il proprio prodotto interno lordo crollare del 7%, affogato la domanda interna con una riduzione dei salari e compromesso la propria capacità produttiva con il dimezzamento degli investimenti nell’istruzione e nella ricerca. Di fatto è già fallita occorrerà solo trovare il coraggio di sussurrarselo nelle stanze di Bruxelles.
Lontane le soluzioni ciò che può manifestarsi è un qualcosa che va oltre la sempre florida speculazione si chiama saccheggio ed ha obbiettivi precisi. Le prime vittime sono coloro che da secoli pagano i conti per tutti e accomunano una grande fetta di popolazione suddivisa oggi tra chi vive di lavoro o di pensione, chi è disoccupato e scala di giorno in giorno cime di classifiche statistiche e chi come studente osserva tanto una preclusione del proprio futuro quanto un continuo disinnesco delle proprie potenzialità. La logica di Francoforte e dei grandi centri della finanza globale è questa. Paghino i popoli in quanto entità superflue a questo sistema perché essi non sono altro che veri e propri servomeccanismi funzionali al mantenimento e alla crescita del capitale, le varie umanità non contano anzi andranno scollegate in quanto d’intralcio a tali processi.
Per gli italiani la doccia fredda ha fatto coppia con le calure di agosto. È stata sufficiente una letterina a dare il via all’esproprio di una quota ormai totalizzante di ricchezza, di risorse e di sovranità politica. Parlamento, Senato e Presidenza della Repubblica ripopolati come meri epifenomeni dei mercati, della borsa, degli speculatori perché ormai non sono altro anche le nostre istituzioni, quelle che con ostinazione continuiamo a definire la nostra democrazia. Le hanno privatizzate, appaltate, esternalizzate e questo non da oggi, ca va sans dire, come se dopo i servizi che esso elargisce fosse lo Stato stesso ad essere diventato un oggetto residuale.
La cattedra del governo italiano è già supplenza con sedi sparse tra Francoforte, Bruxelles, Londra e New York. La lezioncina che ci verrà somministrata è la solita pappardella degli ultimi trent’anni, quella del dogma neoliberista che, come ogni utopia, lo si sà è totalitaria e non ammette dissenso. Anzi questo non verrà nemmeno concepito dai sacerdoti di nuova elite.
Obiettivo principale abbattere quel duro albero che ha fatto dell’Europa ciò che è: lo stato sociale. L’acqua è salva grazie ai referendum su tutto il resto potrà calare la mano famelica del profitto. Lo farà molto presto c’è da esserne certi. Quale altro investimento potrà essere così produttivo quando il patrimonio dello Stato si è rivelato come l’unico e il vero “grande affare” nel passaggio dal XX al XXI secolo. Ma procediamo con ordine perché in questo clima da la notte del Titanic addebitare il peggioramento delle condizioni di vita a un’ideologia, constatando al tempo stesso che il mondo è profondamente indebitato, risulta un esercizio contraddittorio nella misura in cui possiamo ipotizzare con decisione che il neoliberismo sia effetto dell’indebitamento e non semplicemente una sua concausa. Commercio e industria sembrano annientati?
La risposta è antichissima perché la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di sostentamento, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive, di cui dispone, non servono più a promuovere lo sviluppo della società borghese, al contrario, esse sono diventate troppo potenti per tali rapporti, ne vengono ostacolate e non appena rimuovono tale ostacolo gettano nel disordine l’intera società borghese.
Oggi non è difficile comprendere che dai settori produttivi oggi non si estragga più quel plusvalore necessario e che quindi il capitale si rifugi in borsa, come promessa di futuri investimenti produttivi. Da qui la moltiplicazione del denaro da sé stesso, una crescita che è pura simulazione, come se l’indebitamento infinito fosse funzionale alla perpetuazione della disuguaglianza della ricchezza.
Buona parte della generazione della ricchezza sotto il neoliberismo è stata portata a termine divorando il corpo del socialismo, sia in quello che precedentemente era chiamato secondo mondo, sia nel primo, sia nel terzo. La ricchezza che era stata materializzata nella proprietà pubblica, nelle industrie e nelle istituzioni, è stata trasferita nelle mani del privato. Se ricordiamo che l’essenza del mondo capitalistico di produzione è che esso deve produrre ricchezza, questa è per l’appunto la ragione della debolezza del neoliberismo” vale a dire l’incapacità dello stesso “di concepire e applicare schemi esecutivi per stimolare e organizzare la produzione. [Hardt, 2010, pag. 268] Nessuna economia capitalistica, alla lunga, può navigare senza bussola, senza strategia, non a caso sono molti gli osservatori che per definire l’era contemporanea hanno utilizzato l’espressione capitalismo disorganizzato. [Offre, 1985; Lash e Urry, 1987; Callinicos, 1990; cfr. Held, 1999 pag.139] Andiamo oltre però, perché – dato il momento – è bene tenere a mente quella sorta di incestuoso rapporto che ha caratterizzato i rapporti tra banche d’affari e istituzioni pubbliche negli ultimi anni. Qualcuno ricorderà “l’inizio” della crisi quando in difficoltà non erano gli stati bensì le grandi banche, quando queste vennero “salvate” con un enorme immissione di liquidità (denaro pubblico)? Fallirono Lehman Brothers, Aig e Freddie Mac, accanto a loro – nel settembre 2008 -anche la Goldman Sachs, una delle più grandi e affermate banche d’affari del mondo ha qualche problema e nel 2010 verrà inaspettatamente incriminata per frode dalla Sec.
Tra i suoi dirigenti passati a funzioni pubbliche troviamo: Romano Prodi che da consulente divenne Presidente del Consiglio, Mario Draghi da Vicepresidente a Governatore della Banca d’Italia (a breve alla Bce), Gianni Letta nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Mario Monti che da commissario europeo sulla concorrenza è passato alla Goldman Sachs; e questi solo per rimanere in un ambito “italiano”. Una squadra da scudetto non c’è che dire.
Sicuramente le forze che agiscono sono imponenti e il cappio dei debiti sovrani è il volante delle manovre delle grandi organizzazioni economiche internazionali. Tra il “terrorismo del deficit” come cominciano a definirlo alcuni economisti e la “guerra del debito” non vi è molta differenza. Nel contesto biopolitico targato 2011 le bombe vere e proprie vengono riservate ai paesi con materie prime, le “ristrutturazioni” della grande fabbrica globale possono svolgersi in altri modi, le industrie serrano comunque propri i battenti, le saracinesche dei negozi si abbassano così come i macchinari si arrugginiscono inutilizzati e le periferie si popolano di scheletri. Non occorrono le bombe, il guinzaglio del debito è condizione sufficiente a disarcionare un paese, a dare vita all’esproprio definitivo della sua ricchezza vendendo pezzo per pezzo ciò che resta della sua terra e di coloro che la abitano.
Siamo in presenza di una enorme ipocrisia. Abbiamo finto di interessarci alla vacuità del chiacchiericcio dei nostri amministratori, nullità antistoriche ripetute come sermoni a reti unificate, fiumi di parole inesauribili e confronti serrati con le armi del nulla per capire dove tirava il vento. Ma la verità è più narrativa, è finzione pura e semplice e mentre seguivi il flusso di parole come una brezza quasi impercettibile la terra era già lontana e il tifone in arrivo, in mare aperto il giorno del naufragio. Il “caro” ministro Tremonti ha riempito pagine e macinato tempi su binari morti: la malefica Cina e la concorrenza sleale alla quale ci costringeva andava bloccata con barriere di dazi, mentre ora vestiamo i panni dei piazzisti che trovano in Pechino il giusto salvagente per quote significative di Btp. Le barriere già le abbiamo nei Cie o lungo le coste del Mediterraneo, sono dazi per le persone non per le merci.
Sia ben chiaro non ho nulla contro i cinesi ma ho tutto contro chi mi propone la videosorveglianza sul lavoro e il controllo istante per istante di ogni mio movimento attraverso un impianto audiovisivo (Articolo 8 ) la Gestapo civile, catena di paura per il licenziamento e la disoccupazione. Tutto ciò è in netto contrasto con la nostra Carta Costituzionale dunque: illegale, ma in tempi incerti come questi il confine tra la legalità e l’illegalità è un semplice gioco di potere, una pistola alla tempia e difficilmente ci si potrà affidare un Napolitano che come bussola guida ha il concetto: prima l’Euro e il pareggio di bilancio. Un concetto che ha una sola direzione il suicidio dato che il deficit è sempre stato uno dei principali strumenti di politica economica degli Stati.
Peccato che l’Europa cali le sue carte e il rientro dal debito pubblico sia diventato la regola aurea da inserire all’interno delle legislazioni nazionali. Anche come legge costituzionale com’è già accaduto in Spagna dove la privatizzazione della Costituzione ha in pratica relegato in soffitta quel compromesso che ha rappresentato il collante politico principale su cui si è innestata la democrazia post-franchista. In Italia maggioranza e “opposizione” appaiono concordi alla modifica dell’art. 81 della nostra Costituzione nonostante questo sia in aperta contraddizione con tutta la prima parte della nostra Costituzione quella che pone vincoli sociali e civili molto prima di quelli economici e di bilancio. Tutto ciò rende profondamente surreale ogni approccio al dibattito ufficiale sulla manovra appena varata se non in seno alla solita giostra sul chi si candiderà a gestire i prossimi diktat dei mercati e della Bce nel sempreverde dopo Berlusconi.
L’Austerity che ci viene consigliata non servirà affatto a ridurre il debito anzi come conseguenza a una minore massa di ricchezza ci condurrà verso un ulteriore indebitamento, la Grecia è lì e ce lo insegna. L’unica arma che possiede l’Italia è la stessa con la quale oggi viene attaccata: l’enorme massa del suo debito. Quell’essere too big to fail che abbiamo imparato a conoscere nel lontano 2008. Il concetto di bancarotta non dovrebbe spaventare è un diritto a ricominciare così come ha fatto l’Argentina dieci anni fa e come ha mostrato l’Islanda in questi ultimi mesi.
Già oggi comincerà l’aumento dell’Iva di un punto percentuale che sommato ai vari tagli e alle certe prossime manovre di aggiustamento condurranno il paese sull’orlo della catastrofe.
Per questo e per altre infinite ragioni il 15 Ottobre sarà la data in cui i cittadini di tutta Europa scenderanno in strada a reclamare dignità. Prima di allora si prevedono continui sciami di movimento come quelli che hanno tappezzato tutta la penisola con la Val Susa capofila in questa calda e lunga estate.
Forse non erravano gli antichi quando ritenevano vi fosse una forza intrinseca nel nome delle cose, le quali cose, per il sol fatto di essere pronunciate, acquisivano le attribuzioni insite nel loro nome.
La prima parola che ci è stata tramandata con il significato di “libertà” è il termine sumerico amargi, che indica “libertà dai debiti” e in senso letterale, significa “ritorno alla madre”: quando veniva dichiarata bancarotta, infatti, tutti i pegni offerti come garanzia del debito potevano “tornare a casa”.”
Fu questa la grande sciagura sociale dell’antichità – le famiglie si trovavano costrette ad ipotecare il bestiame e le terre e, dopo un po’, persino le mogli e i figli potevano essere richiesti come pegno per i debiti. Spesso gli individui potevano trovarsi costretti ad abbandonare del tutto le città, unendosi a bande semi-nomadi, minacciando di tornare armati e di rovesciare del tutto l’ordine esistente. I governanti conclusero quindi che l’unico modo per prevenire un completo collasso sociale consisteva nel dichiarare bancarotta o “pulire le tavolette”, cancellando tutti i debiti dei consumatori per ricominciare da capo.” [Cit]
Hardt Michael, Negri Antonio, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano, 2010
Held David, Democrazia e ordine globale. Dallo stato moderno al governo cosmopolitico, Asterios Editore, Trieste, 1999