We’re All in this together dicono gli inglesi…
Era il 4 Maggio scorso e dalla collina del Partenone campeggiava un messaggio poco equivocabile: People of Europe rise up! monito-speranza di una Grecia alle prese con l’austerity.
È passato poco più di un anno da allora ma sufficiente a riempire di rughe un presente che invecchia sempre più rapidamente. Rivolte hanno incendiato le praterie ai confini del vecchio continente, il faraone Mubarak non è riuscito a festeggiare il trentennale dalla sua incoronazione (14 ottobre ’81). Stessa la sorte capitata al suo omologo in Tunisia. La bestia del proletariato è tornata ad affacciarsi prepotentemente tra le fessure della storia e le brezze d’incertezza si sono fatte venti. Nel mentre i cannoni della Nato hanno ripreso a ruggire nelle acque del Mediterraneo 12 anni (un secolo) dopo l’intervento in Kosovo, in una guerra lampo (che lampo non è mai) più affrettata dai demoni di grandeur coloniale di Francia e Gran Bretagna che da scelte politiche ponderate.
Contingenze di un motore storico che è tornato a galoppare.
Poi vi è un dato che non balza subito agli occhi ma che completa il palcoscenico della vecchia Europa. Basta osservare la sua carta politica per comprenderlo: 22 paesi su 27 sono a guida destra o destrocentrica, alcuni sostenuti anche da un’ala estrema (interessante sbirciare qua ) come in Finlandia, Ungheria e Danimarca senza contare l’Italia dove il gianobifronte Lega offre pacchetti secessionisti confezionati con logiche da apartheid o da America anni 50 (vedi “su i bus posti riservati ai milanesi “)In tale cornice il Pse sembra tramortito, ha appena perso la guida di un paese in svendita, il Portogallo, mentre ne guida altri due: la Spagna del traballante Zapatero e la Grecia col cappio al collo ormai feudo delle banche tedesche (Ottone I e piazza Sintagma , come dire che la storia si ripete) oltre a Cipro, alla Slovenia e all’Austria.
Dopotutto, personaggi e protagonisti del Pse, avevano dimenticato da tempo la loro ragione d’essere, giostranti in un sistema dominato dal capitale finanziario hanno guardato più alle banche che ai loro cittadini, alle loro città, ai loro Paesi. Ipocrisie accettate a lungo fingendo e ingannandosi di non conoscere i limiti oltre i quali la democrazia è pura finzione ossia solo una funzione comoda ai padroni.Le novità però ci sono e le ondate d’urto del dissenso si sono fatte sentire anche in Italia con le urne amministrative che hanno consegnato verdetti impensabili solo pochi mesi prima.
Quella che da più parti è stata definita la primavera araba sembra essere sbarcata anche in Europa (o perlomeno nella sua componente mediterranea) con impulsi al cambiamento ancora tutti da decifrare ma che hanno preso forza – e questo è innegabile – attraverso un processo di RISONANZA.Certo gli effetti della crisi incidono, producendo rivolta morale, indignazione e rabbia ma per osservare nuove soggettività occorre ben altro; occorre prendere forza e occorrono i dispositivi perché questi possano tornare a prendere forza.
Contrariamente a quanto si possa pensare infatti e distantissimi dalla folla dei presunti vincitori (vedi tatticismi delle provinciali di Macerata), dai neoliberisti in camicia democratica o dagli spacciatori di centrismo, le amministrative italiane sono il risultato di altri fattori. Di soggettività che hanno preso forza in lunghe notti sui tetti, in piccole battaglie per il lavoro, in resistenze alla gestione camorristica dei rifiuti o in quelle a guida Fiom contro il contratto selvaggio targato Marchionne. Resistenze alle speculazioni bipartisan stile Tav o in semplici impegni per i referendum contro la privatizzazione dell’acqua e del ritorno al nucleare. A ben guardare si potrebbe affermare che – qua da noi -tutto è cominciato quel 14 Dicembre quando è fallito lo scombinato tranello parlamentare al premier nello stesso istante in cui a Roma studenti e precari dichiaravano la loro indignazione. Soggettività difficilmente imbrigliabili dalle agonie della forma partito o dai linguaggi della pubblicità politica.
Ci troviamo di fronte a cambiamenti profondi che nulla lasciano al loro posto, malgrado a più parti si pensi che una volta sgomberate piazze e strade tutto tornerà come prima a quel silenzio tombale che chiamiamo “normalità”.
Dalla Spagna che ha visto nel movimento M15 ogni saggezza popolare fondersi a una maturità di movimento nella quale l’impossibile è diventato inarrestabile trasformandosi nell’evento dell’ acampada del Sol hanno risuonato ricostruzioni precise. Si denunciava come fosse intollerabile un sistema bipolare nel quale le due grandi forze parlamentari di fatto erano egualmente corrotte e responsabili della crisi e le richieste spaziavano da una riforma del sistema elettorale per poi passare alle libertà dei cittadini, contro il controllo di internet (legge Sinde ) e a una generalizzazione del metodo referendario. Qualche analogia?Qualche analogia c’è se le acampadas oltre che interessare 60 città spagnole si sono viste spuntare in maniera virale a Lisbona, a Parigi e nella disperata Grecia dove la paura del nulla che avanza ha fatto uscire di casa 200.000 persone riunitesi pacificamente in piazza Sintagma per protestare o a Salonicco dove sotto la Torre Bianca a centinaia osservavano lo scorrere delle immagini di Debtocracy, documentario che parla di finanza.
Plaza del Sol è sembrato un fulmine a ciel sereno, un evento politico eccezionale di un malessere emotivo generalizzato cresciuto tra pancie suppur piene. Non nasce però dal nulla ma è frutto anch’esso di accumulazioni, sedimentazioni, di tante piccole lotte e di galassie in movimento.
I linguaggi e i messaggi passano sì dalla rete da forum, Facebook, Twitter ecc. (si è spinti spesso a pensare il binomio internet-rivoluzione) ma portano bagagli di know-how autorganizzativi inconcepibili senza le esperienze acquisite negli anni da piccoli gruppi e in diverse battaglie.
Non si prepara una cucina che offre pasti gratis a orari prestabiliti in breve tempo o solamente tramite il click attivismo.
Così come non si compongono richieste politiche tanto deflagranti quanto efficaci senza un substrato di lotte e coscienze in via di rigenerazione. Infatti, la piattaforma che ha dato i natali alla “comune di Madrid”, ha visto l’incontro di varie realtà già preesistenti, da Democracia real ya – associazione di attivisti informatici a V de Vivenda un movimento in lotta per la casa attivo dal 2005 fino a Yuventud sin Futuro.
La dinamica del flusso però è qualcosa che scorre sotterraneamente come il magma di un vulcano che prima di mostrarsi in superficie compie un lungo percorso sotto terra, lontano dai riflettori mediatici o dalle attenzioni dei politici, migliaia di microesperienze e di pratiche collettive tanto capillari quanto inaspettate quando diventano visibili.
Le similitudini con piazza Tahrir sono evidenti al di la delle diverse congiunture, il processo di risonanza che dall’Egitto è sbarcato sulle coste della Spagna fa parte della stessa genealogia.
In primo luogo per un fattore di tempi, prendere la piazza è una cosa (anche l’Albania l’ha fatto), un altra è dire (come è stato in Egitto) prendiamo la piazza finché Moubarak non cade o fino alle el
ezioni o finché non ci pare a noi come alla fine è avvenuto in Spagna.
Sincretismi ed echi di dinamiche che risuonano da un paese all’altro, stile book bloc.
In Italia ad esempio si è saliti sui tetti o sui monumenti come a Novembre dove le immagini degli striscioni appesi sul Colosseo, sulla Mole Antonelliana e sulla torre di Pisa hanno risuonato in vari media continentali e non solo. E la pratica di salire sui tetti non risuonava forse dall’Iran di due anni fa? Così come lo slogan “Que se ne vayan todos” non appartiene alla stessa genealogia della rivolta Argentina del 2001? Oppure la guerra dell’acqua di Cochabamba nel 2000 non è estremamente attuale nell’Italia 2011?Domande alle quali forse non si è ancora in grado ancora di fornire risposte chiare.
Quelle arrivano da altri luoghi. Dalla Troika di staliniana memoria (Fmi, Bce e commissioneEuropea) che proporranno ricette standard spacciate sotto la solita sigla “scelte difficili”in nome di una futura quanto ipotetica prosperità del continente.
Traduzione un presente e un futuro di asterità infinito.
Per l’Ita-g-lia si tratterà di una leggera correzione nella manovra finanziaria – Bruxelles docet – di circa una quarantina di miliardi per questo Ottobre.
Nuovi sciami sono forse in arrivo ma prima si prevedono i terremoti.