Sabato 9 aprile in tante piazze italiane è scesa in piazza la precarietà. Anche Modena ha visto un proprio corteo sfilare per le vie del centro storico.
Una valida partecipazione se si considerano i numeri delle altre città e una manifestazione festosa sotto il caldo anomalo di questo aprile estivo. Un primo passo forse ma un passo stanco se si continua a ragionarecon ottiche di corto respiro.
All’alba del 2011 osservare manifestazioni contro la precarietà solamente tramite le categorie del lavoro risulta esercizio incerto nella misura in cui il lavoro era precario vent’anni fa mentre oggi è più un’intera visione del mondo ad essere precaria.
La precarietà odierna non è una dimensione che interseca esclusivamente l’ambito lavorativo o le soggettività come biografie professionali. È un vero e proprio tipo di esistenza. Un riflesso che riecheggia in tutto e per tutto le note di quella clandestinità tanto evocata in questi giorni di sbarchi. Precarietà è aridità degli intorni, la secchezza di radici perdute divorate da un consumismo istantaneo e da quell’unica libertà ormai riconosciuta, quella d’impresa, riformata tra una mera rapina e una progressiva riproduzione dello scarto. Scarti come scorie, dalla radioattività che fuoriesce a Fukushima ai rifiuti campani. Si fanno scorie gli esuberi, tutti quei lavoratori (esseri umani) osservati esclusivamente come oggetti di costo da una mentalità aziendale e dal dispotismo della ragione economica dominante, scorie come le umanità intrappolate tra l’ossimoro di una guerra umanitaria e un “accoglienza” composta di recinzioni che assomigliano sempre più a container di bestiame. Uno slogan come “il nostro tempo è adesso” coglie precisamente la dimensione del tempo nel quale ci troviamo, condizione per cui in assenza di memoria del passato e privi di speranza nel futuro ci immergiamo ergastolani in un presente sempre più rischioso. In fondo basterebbe analizzare come con inaudita frequenza, la parola emergenza rientri nel dibattito pubblico e di come in base a questa si instaurino strategie per riformare in senso restrittivo e permanente norme e comportamenti istituzionali. Basterebbe osservare come in nome dell’eccezione (che diventa sempre più una regola) le istituzioni pretendano di storcersi a passo svelto esclusivamente sulle loro funzioni governamentali dimenticando o eludendo completamente la difesa della loro struttura ordinamentale come se fossero oscuri interessi ad auspicare e prefigurare disordine e caos permanente. Meccanismi che ricordano da vicino la Shock economy illustrata magistralmente da Naomi Klein in un volume di qualche anno fa. Quando l’uomo è visto più come oggetto produttore o consumatore di beni, quando non è definito spregiativamente come marginalità, costo o clandestino piuttosto che essere inteso come un soggetto allora economia, diritto e modalità di produzione perdono la loro necessaria relazione con la vita e con ciò che consideriamo persona umana. In questi frangenti sentire dittatori del Nord Africa etichettare come topi cittadini rivoltosi, grandi broker della finanza bollare come contadini le masse di risparmiatori ogni giorno defraudati o capi di stato appellarsi al popolo per ribadire una propria legittimità dovrebbe fare riflettere. Un tempo e gli albanesi ne sanno qualcosa, vigeva in metà del mondo un sistema di socialismo reale fortunatamente imploso sotto i colpi delle proprie contraddizioni.
Oggi esteso quasi interamente sull’intero globo vige ciò che potremmo tranquillamente definire il capitalismo reale. Un sintema violento e spaventoso che a breve rischia di riproporre in maniera più moderna e totale tutti i drammi vissuti in quel secolo breve appena trascorso.
In questa situazione l’unico antidoto esistente è racchiuso nelle capacità di far riemergere un conflitto in seno alla società, un conflitto che prima di essere inteso in termini fisici, di corpi sociali contrapposti sia appreso attraverso quei confini mentali che hanno reso cieco l’uomo moderno. Oltrepassare questi confini mentali significa semplicemente illuminare col lanternino quei paradossi che sono il filtro percettivo per intendere il reale.Un paradosso è quel tipo di proposizione che contraddice il meccanismo logico che sovraintende il reale. Coglierlo significherebbe esporre alla luce del sole (il più grande antisettico che esista) tutte le contraddizioni fino ad oggi operanti.
A che cosa è mai indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? È indotto a ricominciare daccapo; a iniziare dal nuovo, a farcela con il poco, a costruire a partire dal poco e inoltre a non guardare né a destra né a sinistra.
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