Tanti i termini in uso per definire i cittadini di origine straniera. Quale sarebbe quello “giuridicamente appropriato” stando alla realtà dei fatti? E non è meglio parlare di “una nuova Italia” e “una nuova cittadinanza”?
Nel discorso pubblico e politico degli ultimi anni sono entrati a far parte anche i termini “nuovi cittadini” e “nuovi italiani”. Di solito, in uso da chiunque si dimostra più attento ai temi dell’immigrazione, si riferiscono ai cittadini di origine straniera e ai cittadini nati in Italia da genitori di origine straniera. L’intento è nobile. In un certo senso, si vuole introdurre un linguaggio più rispettoso nei confronti di questi cittadini e aprire la strada a una loro accettazione “naturale” da parte dell’autoctono medio. Ma anche indurre al riconoscimento o alla concessione di più diritti di cittadinanza e a una riflessione seria sul cambiamento radicale in atto della società italiana e sul suo futuro. In altre parole, questi termini fungono da catalizzatori di un cambiamento culturale profondo sull’immaginario comune dell’italianità e sul concetto di cittadinanza. Non basta avvalersi solo di essi per promuoverlo: di un termine più del suo enunciato vale la connotazione che assume.
Il loro uso sollecita l’attenzione del cittadino medio che si chiede chi siano i “nuovi cittadini” e i “nuovi italiani”. Cosa può pensare quando gli viene risposto che si tratta degli “immigrati” e dei “figli di immigrati”? Data la cultura politica in questo paese e la percezione che si ha attualmente sull’immigrazione, non c’è da stupirsi se quando sarà lui a spiegare ad altri chi siano, non esiterà ad usare in modo indiscriminato un unico termine per entrambi: “gli extracomunitari”.
Dall’altra parte, questi termini sono vuoti. Non corrispondono ad essi né maggiori concessioni di diritti di cittadinanza, né migliori politiche di integrazione e né sforzi continui per un cambiamento culturale. Sono un concentrato di buoni propositi e delle tentate “battaglie” che fanno parte della “cultura dell’apparenza” in questo paese. Per di più, sono d’impatto soprattutto per i giovani nati in Italia da genitori stranieri, sollecitando le loro aspettative e i loro sogni. Volendo applicare alla lettera la Carta di Roma, il protocollo deontologico dell’Ordine dei giornalisti sui temi delle migrazioni, per restituire ai cittadini la massima aderenza alla realtà dei fatti, sarebbe corretto usare termini giuridicamente appropriati. Quale sarebbe quello giusto in questo caso? Almeno la giurisprudenza non usa mezzi termini. Sono dei “non cittadini”. Essere “non cittadino” significa in sostanza non godere dei diritti politici, quelli che fanno la differenza nel concetto di cittadinanza. Dall’altra parte, oggigiorno viene messo spesso in risalto l’assimilazione di usi e costumi italiani da parte dei “nuovi cittadini” e dei “nuovi italiani” per dimostrare che sono effettivamente “come noi” e quindi italiani. Su questo versante, è emblematico uno spot del PD, il partito parlamentare più sensibile sui temi della cittadinanza, apparso a luglio dell’anno scorso in occasione dell’iniziativa “Nuovi italiani: chi nasce in Italia è italiano”. Ruy, un ragazzo romano ventenne con genitori angolani, cucina per i suoi amici gli spaghetti alla carbonara. E quando va a servirli attorno al tavolo ci sono anche altri italiani dai tratti poco mediterranei. Quale modo migliore per disfare un luogo comune o un pregiudizio se non utilizzando uno dei quattro luoghi comuni sugli italiani nel mondo, i famosi “pizza, spaghetti, mandolino e mafia”? E se Ruy si sente francese, va in moschea e un giorno sogna di vivere in Giappone, ma continuano a piacergli gli spaghetti alla carbonara, non ha diritto di essere romano, italiano e avere la cittadinanza?Effettivamente, non si fa altro che affermare una fatto sociologico: vivendo in una società si assumono sembianze, usi e costumi della sua componente maggioritaria. La vera sfida non è far dichiarare al cittadino medio: “ma guarda un po’, anche i neri nati in Italia sanno cucinare e mangiare gli spaghetti”, ma piuttosto diffondere ed educare tutti i cittadini e i politici con una diversa concezione di cittadinanza, slegata dal principio di nazionalità nella sua accezione di appartenenza etnica. Nazionalità e cittadinanza nella cultura giuridica e politica tendono a sovrapporsi. Entrambi indicano l’appartenenza ad una comunità e allo Stato, ma il primo indica il legame giuridico tra cittadino e stato e il secondo lo status che ne deriva. Nell’epoca degli stati nazionali, nazionalità e cittadinanza hanno coinciso con l’ethnos perché si trattava di un contesto storico, sociale e culturale diverso, ma ha continuato a persistere nell’immaginario comune, nonostante la scienza giuridica e politica sia andato oltre questo legame. Ancora più oggi con l’avvento della globalizzazione e dei fenomeni migratori di massa, non si può continuare a rifarsi all’ethnos.
Quindi più di nuovi italiani bisogna parlare anche in questo caso di una nuova Italia, più di nuovi cittadini di una nuova cittadinanza e di una nuova società. C’è in questo paese un deficit di cittadinanza e partecipazione che riguarda tutti i cittadini e i gruppi sociali. Lo stesso cittadino italiano spesso non conosce diritti e doveri, non conosce le istituzioni e le considera un peso, e qualche volta non sa neanche cosa significa esserlo. Come c’è anche un sistema paese molto politicizzato fondato sulla partitocrazia, il clientelismo e le raccomandazioni.
Il fenomeno dell’immigrazione si inserisce in questo contesto già esistente prima del suo avvento in massa. Chi viene ha una sua cultura, lingua e religione, che vorrà continuare a coltivare e semmai passarla anche ai figli. È un suo diritto e una sua libera scelta, come lo è anche decidere di non coltivarli. In entrambi i casi, come del resto per tutti i cittadini, bisogna crearne le condizioni per poter scegliere. Dall’altra parte, oltre ai diritti civili e sociali già riconosciuti in larga misura, bisogna estendere ai non cittadini anche quelli politici e coinvolgerli sempre di più nella vita politica, sociale e culturale di questo paese. Va precisato che uno stato riconosce questi tre diritti solo ai cittadini ma estende i doveri che ne derivano anche ai non cittadini. Bisogna far capire a tutti, cittadini, non cittadini, nuovi e vecchi italiani, che per costruire la cosa pubblica dobbiamo migliorare questo sistema paese, condividere ed educarsi ad una nuova concezione politica e sociologica di cittadinanza fondato su diritti e doveri ma anche sulle libertà. Quindi è possibile essere cittadino ed essere italiano se si ha la pelle bianca, ma anche se si hanno la pelle nera e gli occhi a mandorla, se si parla italiano ma anche se si è bilingue, se si va in chiesa ma anche in moschea o al mausoleo di Lenin, se si mangiano gli spaghetti ma anche il cous cous e tave kosi. Perché non sono i nostri tratti somatici ad unirci, né i nostri stili di vita e né la nostra sfera privata che determinano il nostro essere cittadini e quindi italiani. Piuttosto è quello spazio comune e condiviso di valori, principi, partecipazione, diritti e doveri, istituzioni e altro che riusciremo a costruire all’interno della sfera pubblica. Più si allarga e più aumenterà la coesione sociale e il benessere e più ci riconosceremo in questa società e in questo paese. L’obiettivo può dirsi raggiunto quando questo spazio condiviso e la sfera pubblica coincideranno.