Da quando sono in Italia (cioè da quasi vent’anni, visto che sono un albanese della prima ora, arrivato qui con l’ondata del ’91), mi è sempre piaciuto tenere d’occhio un po’ tutta la letteratura prodotta da albanesi, sia le opere pubblicate in lingua italiana che quelli edite direttamente in Albania.
Devo dire che di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Ultimamente – diciamo da un paio d’anni – vedo che la produzione letteraria albanese sta finalmente guadagnando un suo spazio, un suo riconoscimento, sia pur con lentezza e a fatica.
Non parlo propriamente di mercato (quello purtroppo è un’altra cosa, per il momento…), ma di presenza nei festival che contano e di riconoscimento da parte della critica.
Non sarebbe corretto farne nomi, ma voglio sperare che questa ritrovata visibilità sia in qualche modo conseguenza del progressivo abbandono da parte di molti scrittori dei soliti temi, e cioè la voglia di descrivere sempre e solo il vecchio regime e di come si stava allora.
Per anni gli autori albanesi non hanno praticamente parlato d’altro, e francamente credo che tutto quello che si doveva dire sull’argomento sia stato detto, e mi risulta di non essere il solo a pensarla così.
È giusto il valore della memoria storica, è sacrosanto non dimenticare, ma non possiamo aspettarci che il pubblico e la critica siano disposti ad accogliere ancora con attenzione queste nostre storie: le storie di neanche quattro milioni di abitanti (la stessa popolazione del Veneto), e senza le tragedie generazionali che hanno contrassegnato altri totalitarismi. Tragedie personali in realtà ce ne sono state, ma non al punto da interessare una opinione internazionale distratta.
Certo, il nostro è stato un isolamento culturale totale, con tutti i danni che ne sono conseguiti. Mi ricordo bene anch’io, quando nella mia pagella delle superiori osservo il mio voto sullo “studio del marxismo”…
Un isolamento tale che quando le frontiere si sono aperte, per lungo tempo ci ha preso la smania di dimostrare che eravamo allo stesso livello degli italiani, sulla stessa lunghezza d’onda, e che non avevano nulla da imparare. E, assieme a questa smania, c’è stata una voglia, un impulso insopprimibile di raccontare come era stata la nostra vita sotto il regime. Anche soltanto per una terapia personale, per liberarsi di un peso.
Adesso che è tutto finito, le vicende politiche di questi vent’anni ci insegnano che non si può pretendere che il sistema democratico, un sistema a noi prima sconosciuto, possa funzionare subito. Capita che sia in crisi perfino dove esiste da secoli, perché doveva funzionare subito proprio da noi? Non è così facile come sembrava.
Tornando al discorso, i nostri scrittori per me sono in grado di fare di più e meglio, ma trovo che bisogna abbandonare un po’ le storie dell’immediato dopoguerra: a me sono piaciute tutte, alcune le ho trovate particolarmente intense, ma è ormai tempo che la nostra identità nazionale, il nostro albanian pride, passi per altre strade.