Da quando il governo di Prishtina ha deciso di intraprendere l’azione militare per il controllo dei valichi doganali del nord del Kosovo, gestiti da autorità da serbi kosovari dal 2008, ne è seguito un amalgamarsi di informazioni e posizioni, diplomatiche e politiche che ha aggiunto altre tensioni al Nord del Kosovo. Per alcuni l’azione ha rivelato l’incostanza e l’assenza di una chiara linea politica dell’attuale governo kosovaro suscitando altra violenza alla già tesa situazione, per altri vi è spazio di complimentarsi per la decisione presa e l’intenzione di controllare i propri confini. Ci si chiede dunque se alla fine ci saranno dei cambiamenti sostanziali per la gestione del nord del Kosovo o meno?
Tutto ha inizio con le misure adottate il 20 luglio dal governo del Kosovo con l’intenzione di applicare “la piena reciprocità” che consiste nel totale embargo ai prodotti serbi importati, mentre a quelli Bosniaci applicare un dazio doganale del 10%. Dal 2008 –infatti- i due stati bloccano l’ingresso nel loro territorio di qualsiasi merce col marchio kosovaro, in quanto non riconoscono la Repubblica del Kosovo. L’applicazione della misura si complica dato che dal luglio del 2008 il Kosovo ha accettato che i controlli ai valichi 1 e 31 della frontiera con la Serbia venissero risolti nel quadro del piano di Ban Ki Moon seguendo il principio di una responsabilità comune di Pristina e Belgrado. Ciò significa che la polizia e i doganieri di frontiera del Kosovo non sarebbero stati posizionati nei due punti senza un preventivo consenso di Belgrado, causando un vuoto nel comando doganale per Pristina. L’invio delle unità speciali della polizia del Kosovo, ROSU, era -quindi- diretto a riporre il checkpoint della frontiera nel nord sotto il comando delle forze kosovare, togliere il monopolio serbo e applicare le misure ugualmente in tutti i punti doganali del territorio kosovaro. Inoltre, nel nord del paese, soprattutto nei pressi di Mitrovica, dove vivono la maggior parte dei circa 8% della popolazione di minoranza serba del Kosovo, si commerciare -perlopiù di contrabbando- utilizzando il dinar serbo, e vi è una potente situazione del crimine organizzato dedita al traffico illegale, e dove le forze di polizia kosovare non hanno nessuna capacità di controllo.
I serbi kosovari della zona hanno reagito alla presenza delle unità speciali ROSU scatenato scontri, violenze, sbarramento delle strade e sparatorie, causando la morte di un agente kosovaro. In seguito le forze speciali ROSU si sono ritirate lasciando il comando alla forza NATO della KFOR, che ha negoziato un accordo di “pace di conformità” fino al 15 di settembre. La Kfor, nella quale fanno parte stati che tutt’ora non riconoscono la Repubblica del Kosovo, ha assunto l’affidamento dei valichi in quanto forza internazionale, ed ha sostituito i rappresentanti kosovari nei dialoghi con gli enti locali e internazionali per restituire la pace nella zona. Lentezza di reazioni e perplessità degli enti internazionali.
Degni di rammento sono stati le reazione delle autorità internazionali. Robert Cooper, mediatore dell’Unione europea nei negoziati tra Pristina e Belgrado,ha suggerito ad ambo le parti: “Andate in vacanza. Così torneremo tutti più rilassati e potremo proseguire”. Il ministro degli esteri UE, Catherine Ashton si è limitata a condannare le violenze senza prendere posizioni indicative, così come EULEX che si è dichiarata distaccata dagli eventi. Intanto che le autorità serbe accusano Bruxelles di continuare a vedere di buon occhio il Kosovo, nonostante il cattivo gioco, e porre un aut aut al suo processo di adesione della Serbia, mentre imputano agli Stati Uniti l’essere gli orchestratori del “tentativo” dell’azione militare. Di diversa opinione è il Comitato di Helsinki per i diritti umani che critica duramente la politica serba d’aver destabilizzato la situazione al nord per non voler ritirare le sue autorità dal territorio kosovaro . Sarebbe pertanto opportuno che una volta finita la missione Kfor, il controllo tornasse progressivamente nelle mani di Pristina allontanando le difficoltà anche per Belgrado, e ponendo freno alle attività illegali e criminali-suggerisce lo stesso Comitato. Un “Südtirol” per il nord del Kosovo?!
Da questa nuvola grigia che galleggia dalla fine di luglio-inizio agosto sopra il cielo del nord del Kosovo, è uscita una notizia di corridoio pubblicata dal giornale kosovaro “Koha Ditore”, in cui si descrive la prospettiva di un nuovo Piano, una specie di “Ahtisari Plus” –rientrante nel vecchio pacchetto Ahtisari, e rielaborato dalle stesse entità europee. Il “Piano plus” conferirebbe al nord del Kosovo di maggioranza serbo un autonomia statutaria simile alla Provincia autonoma di Bolzano, nel’Alto Adige. Questa sarebbe in realtà la soluzione più accettabile di tutte le altre. Impossibile, infatti, immaginare una correzione dei confini da cui ne scaturirebbe un effetto a vaso di Pandora, considerando i serbi in Bosnia e gli albanesi in macedonia, e non solo. I pro e i contro del gesto di Pristina.
L’operazione –di per sé fallita- presenta diversi impulsi alla sua origine, e altrettante sfaccettature come sue conseguenza. Innanzitutto è un’Azione militare, voluta dal governo Thaçi per tentar di mostrare i muscoli delle proprie forze speciali, e offrire ai vicini un’immagine rafforzate delle forze militari kosovare. Tentativo fallito per assenza di efficacia, e perlopiù a causa dall’incongruenze e distacco tra piani politici e strategie militari. Dietro l’azione militare vi è un’importante sfondo politico, nato dalla misura precedentemente adottata, ma che ha alle spalle una questione ancora più grande e fondamentale per l’esistenza del Kosovo: chi tra Belgrado e Pristina esercita la propria sovranità nel nord del paese? Non bisogna tralasciare gli interessi economici, più volte menzionati nella misura legislativa e tra i maggiori pretesti dell’azione: promuovere e proteggere l’output kosovaro e rendere possibile i controlli doganali impedendo la commercializzazione contrabbandistica con Belgrado. Solitamente gli scambi commerciali sono l’unguento migliore per agevolare le relazioni tra i due paesi, anche se in questo caso sono tra gli ultimi motivi a sorgere in superficie data l’imponente implicazione delle attività illegali che continuano a soffocare l’economia kosovara. Non è mancata la dose di scossa alla politica internazionale, quella scossa che può offrire un nuovo e migliore equilibrio al governo di Pristina se dimostra di esserne all’altezza. Gli analisti, in primo ordine serbi, ritengono che l’azione abbia come fine ultimo la revisione della Risoluzione 1244 che ha sancito la status quo del Kosovo e che dà alle forze Nato il potere di controllare militarmente lo Stato. Premendo sulle stesse forze internazionale, si vogliono cambiare le carte in tavola. Difatti l’azione –seppure irresoluta- qualcosa di nuovo lo ha ottenuto, ha effettivamente dato avvio a nuove negoziazioni. Sappiamo già che militarmente l’azione non è riuscita e che rimane solo l’opzione della negoziazione, che tuttavia era già in atto tra Pristina e Belgrado, ma che ora presenta dei punti a vantaggio per Pristina, perché il gesto ha sorpreso l’unità internazionale e risvegliato alcune coscienze addormentate. Lo dimostrano le dichiarazioni del ambasciatore francese Fitou che asserisce che la Francia non vuole il ritorno allo status quo ante l’operazione, intanto che il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle difende il diritto degli albanesi occupanti ed invita i cinque Paesi Ue che non l’hanno ancora fatto – Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna – a “riconoscere internazionalmente il Kosovo”.
L’ex mediatore internazionale per il Kosovo, diplomatico austriaco Albert Rohan afferma che lemisure di reciprocità previste dal governo del Kosovo sono perfettamente legittime, fintanto che la Serbia non consente che le merci entrino in Serbia, il Kosovo ha il diritto di fare lo stesso con la Serbia. Il motivo di questa posizione (che comunque non è unanime fra gli stati europei) si ricollega al principio di protezione della propria integrità territoriale e alla necessità contigua di porre un autorità ben definita di controllo al Kosovo, che al momento di identifica con l’attuale governo legittimo kosovaro. Si
capisce bene sia il principio che la necessità facendo riferimento al modello bolzanese di autonomia. Cosa succederebbe se un gruppo di nazionalisti di madrelingua tedesca attaccasse le forze di polizia Italiane durante un operazione, e gli sparassero contro non permettendo loro di prendere il controllo dei valichi di confine con l’Austria? Come si comporterebbe l’Italia? Ovvio che nell’esempio vi è un cambio di prospettiva rispetto al Kosovo. Dall’oggetto al soggetto, dl non riconoscerlo al pensare alla necessità d’integrità del suo territorio. Per questo contano le simpatie delle maggiori potenze europee nel percorso d’ingresso nell’Unione Europea della Serbia. D’altronde, nessuno vuole un’altra questione irrisolta del tipo Macedonia – Grecia.
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