Negli ultimi anni l’Europa dell’Est è stata promossa come una nuova frontiera dell’outsourcing per tutte le imprese produttrici e le multinazionali dell’Europa Occidentale. Dopo un’esperienza di oltre un decennio di outsourcing in Asia e India, le società dell’Europa Occidentale si rivolgono verso l’Europa dell’Est, che offre prezzi e condizioni competitivi e una più stretta affinità culturale.
La crisi globale di questi ultimi due anni, sta facendo si che le società multinazionali si allontanino da contratti a lungo termine (come quelli di outsourcing in Cina ed India), per gli alti costi di set-up e si stanno concentrando di più in progetti a breve termine di outsourcing nell’ Europa dell’Est, riducendo cosi, appunto, i confini culturali e differenze di tempo minore. Nel difficile clima della crisi attuale internazionale, i paesi dell’Est Europa si stano concentrando nel frattempo, nel consolidamento dell’economia di mercato per l’attrazione di investimenti esteri.
L’“outsourcing” nell’Europa dell’Est, attualmente è così distribuito: test e multimedia nella Repubblica Ceca, gestioni di supporto in Ungheria, consulting IT o integrazione di sistemi in Polonia. Per l’“outsourcing” di “processo di mestiere”: centri-chiamate (call-centers) nella Repubblica Ceca, in Ungheria e Polonia; gestione di stipendi e querele, e delle risorse umane in Polonia. Nei Peco (Paesi dell’Europa Centro-Orientale) più sviluppati le imprese occidentali concentrano compiti ed operazioni di alto livello (sviluppo applicativi di alto livello, outsourcing d’infocenters ecc.), potendo contare su una manodopera qualificata e potendo giustificare costi più elevati.
In sostanza, si concentra in queste aree quella che nel gergo economico è definita l’“economia della conoscenza” (ricerca, sviluppo tecnologie avanzate ecc.). In quelli meno sviluppati (es: Bulgaria, Slovacchia, Romania,Albania), le multinazionali concentrano, invece, compiti compatibili con prestazioni e competenze low-cost. In sostanza, attuano una vera e propria capitalistica divisione naturale del lavoro. Per il momento, per le multinazionali occidentali è più attraente l’“outsourcing nearshore”(esternalizzazione del lavoro e della produzione nei paesi più vicini), tenuto conto anche di una serie di indici: tasso d’Iva, tasse, stabilità economica e/o politica, eventuali sussidi locali, disponibilità di risorse umane, qualità dell’insegnamento, conoscenze linguistiche, affinità culturali ecc. Ma nel caso l’Est europeo dovesse diventare troppo caro per il lavoro non qualificato o di massa, allora l’“outsourcing” prenderà sicuramente una direzione offshore (ad esempio, verso l’Asia o l’India).
Come è la situazione attuale dei rapporti dell’Italia e i Balcani? – L’export dell’Italia paese verso i Balcani è passato da dieci a 15 miliardi di euro dal 2005 al 2008; l’area assorbe il 10% degli investimenti diretti italiani all’estero. Nel 2009 l’export italiano verso l’area balcanica è diminuito del 27,2% a quota 8,4 miliardi di euro, ma comunque Italia rimane il secondo partner commerciale dopo la Germania. L’obiettivo del 2010 è superare i 10 miliardi di euro puntando a un incremento del 15% del volume. Il mercato balcanico vale oltre 25 milioni di consumatori giusto alle porte dell’Ue, senza contare gli accordi di libero scambio con Russia e Turchia. Il costo del lavoro oscilla tra il 30 e il 70% rispetto agli altri paesi dell’Europa centrale e orientale; il regime fiscale è particolarmente vantaggioso, la popolazione mediamente molto giovane e sempre più specializzata e istruita.
A ogni paese dei Balcani il suo beneficio e vantaggio:
In Bosnia-Erzegovina, per esempio, l’Iva è del 17% e il salario medio mensile netto (nel 2008) inferiore a 400 euro. Gli incentivi fiscali della Croazia prevedono un’imposta sulle società che può arrivare fino a zero, per le imprese che investono oltre otto milioni di euro. Per quanto riguarda l’assunzione del personale, il governo croato può sovvenzionare fino al 20% dei costi, se il tasso di disoccupazione della contea in cui un’azienda assume è superiore al 20 per cento. In Kosovo il 70% della popolazione ha un’età inferiore ai 35 anni; il salario medio è di 230 euro. L’Albania sta promuovendo sei zone industriali attraverso misure fiscali di vario tipo; energia, edilizia, trasporti, turismo sono alcuni dei settori che promettono i maggiori slanci nei prossimi anni.
Il 1° gennaio 2008, in particolare, è entrata in vigore la riforma fiscale che dovrebbe contribuire a realizzare un’economia più competitiva e a creare un miglior clima per gli investimenti esteri. La nuova legislazione prevede l’applicazione di una flat tax (tassa piatta – un sistema fiscale non progressivo) del 10% su tutti i redditi sia individuali che d’impresa, mentre il sistema fiscale precedente prevedeva una tassa sulle imprese del 20% e una tassazione progressiva dall’1 al 20% per le persone fisiche. Nel periodo 2000-2007 gli investimenti esteri in Albania hanno superato il miliardo e mezzo di euro. Indicativo è il dato relativo agli IDE (l’investimento diretto all’estero) tra gennaio e novembre del 2008: 380 milioni di Euro, la maggior parte dei quali (circa il 64%) è stato destinato al settore finanziario (principalmente nelle banche commerciali), seguito dal settore energetico (elettrico e degli idrocarburi).
La Macedonia sta puntando su aree speciali per lo sviluppo tecnologico e industriale come quella di Skopje, dove l’imposta sulle società è annullata per i primi dieci anni (nel resto della Croazia è pari al 10%). L’Iva è anch’essa azzerata invece di essere al 18 per cento. Idem per l’imposta doganale sulle materie prime e i macchinari; poi ci sono i costi competitivi dell’energia elettrica e per la costruzione di fabbricati industriali, tra 175 e 220 euro per m², il 30% del valore medio europeo secondo i dati Eurostat 2007. La Serbia ha attirato oltre 13 miliardi di dollari d’investimenti diretti esteri dal 2002 al 2008.
È poi l’unico paese, a parte le ex repubbliche sovietiche, ad avere un rapporto di libero scambio con la Federazione Russa, un mercato da 142 milioni di persone. Inoltre la Serbia offre un vasto campo d’azione per progetti di energie rinnovabili, finora frenate da barriere finanziarie e istituzionali: soprattutto la scarsa attenzione delle imprese al risparmio energetico, la mancanza di tariffe “feed-in” (feed-in tariffs FIDs o cosiddette tariffe incentivanti) e il costo molto competitivo dell’elettricità generata da fonti fossili. Il maggior potenziale risiede nelle biomasse (2,40 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio), seguite dall’energia solare e dall’idroelettrico.
Rimanendo sempre in tema, la notizia che ha fatto più clamore negli ultimi tempi è la decisione della Fiat di spostare la produzione della nuova monovolume in Serbia.
Si è parlato e discusso del perché di questa decisione da parte delle autorità di Lingotto.
Perché Serbia tra tutti i paesi dell’Est Europa, tra tutti i paesi balcanici?
• Minore costo del lavoro serbo? Tante multinazionali dell’Europa Occidentale investono in stati con alti costi di manodopera, come la Svizzera, Germania ecc., perché quest’ultimi hanno altri vantaggia. L’Italia viene scartata, con un sistema giudiziario che funziona malissimo, il peso del fisco e della burocrazia. Nella graduatoria “Doing Business” della Banca Mondiale, la Serbia è 88-esima e l’Italia è 78-esima per quanto riguarda alla “ Ease of Doing Business” (Facilità di fare affari), ma per quanto riguarda alla “certezza dei contratti” (Enforcing Contracts) la Serbia è 97-esima, meglio dell’Italia che è al 156-esimo posto.
Facendo il confronto di questi dati noto che l’Albania per quanto riguarda “ease of Doing Business” è al 82-esimo posto e negli ultimi due anni per quanto riguarda la “certezza dei contratti” è al 91-esimo posto. Sempre facendo riferimento alla graduatoria “Doing Business”, è da notare che l’Albania è passata negli ultimi anni dalla 123esima posizione del 2008 alla 46esima del 2010,
per quanto riguarda al “Starting a Business” (l’avvio di un business). Per il raggiungimento di tale risultato pare essere stata decisiva la costituzione di due organismi, il National Licensing Center e il Nationale Registration Center, avvenuta grazie al Millennium Challenge Corporation Albania Threshold Program, gestito da USAID. Tali iniziative di e-government permettono infatti agli imprenditori di ridurre significativamente i tempo di avvio dell´operatività delle imprese, accrescendo nel contempo la trasparenza e riducendo gli spazi per fenomeni di corruzione nell´ambito dello svolgimento delle pratiche amministrative.
• Salario mensile medio in Serbia è di circa 400 euro quando in Italia è in media 1100-1200 euro, in Albania varia da 350 a 450 euro mensili. La paga mensile non è l’unico vantaggio, in base all’accordo firmato due anni fa dal governo serbo e dalla Fiat, lo stato serbo paga la bonifica (la bonifica è costosa) dello stabilimento e cede la proprietà alla Fiat. La fabbrica, la vecchia linea produttiva della Zastava, aveva 2.600 dipendenti all’incirca, questi ex dipendenti della vecchia Zastava la Fiat ne ha assunti solo 1.000 lasciando gli altri a libro paga dello Stato serbo fino a quando la salita produttiva del nuovo modello non consentirà nuove assunzioni. In base all’accordo preso, per ogni dipendente assunto, la Fiat riceve 10.000 euro di finanziamento pubblico. Inoltre per dieci anni la Fiat non pagherà tasse né al governo di serbo né al comune di Kragujevac. Competere con questi costi per l’Italia è impossibile, ma non per gli altri paesi dell’Europa dell’Est. L’Albania per quanto riguarda al “Dealing with Construction Permits” (vedi tabella seguente) è 173esima e per la “Registering Property”(vedi tabella seguente) è al 70esimo posto, considerando che la Serbia è 174esima e 105esima. Questo mi porta a pensare che tale decisione non è solo per un contenimento dei costi ma per altre intenzioni e motivi più “politicamente” ed “economicamente” ambiziose.
“Doing Business” 2010 confronto tra l’Albania e la Serbia: Doing Business è un indagine della Banca Mondiale e IFC (International Finance Corporation) volta ad offrire una misura quantitativa del business environment in cui operano le piccole e medie imprese, prende in considerazione i seguenti ambiti: avvio d’impresa, ottenimento dei permessi edilizi, assunzione di personale, trasferimento di proprietà immobiliari, condizioni di accesso al credito, pagamento delle imposte, protezione degli investitori, commercio transfrontaliero, dispute commerciali e procedure concorsuali. La premessa fondamentale di Doing Business è che ogni attività economica, per funzionare al massimo delle proprie possibilità, deve far fede su un sistema normativo efficace. Le regole alla base di questo sistema devono: definire chiaramente i diritti di proprietà, ridurre al minimo i costi per la risoluzione delle controversie, aumentare il livello di prevedibilità delle iterazioni economiche e offrire una protezione essenziale alle parti contrattuali contro eventuali abusi.
Di seguito in base alle informazioni e criteri di valutazione suddette, l’indagine Doing Business 2010 su 183 economie, la classificazione dell’Albania e la Serbia. Differenze notevoli dando solo un’occhiata alla classifica. Dato particolarmente rilevato dal rapporto del 2010, per l’Albania, è stata la conquista di ben 17 posizioni nella classifica riguardante la capacità nelle negoziazioni transfrontaliere, dove il Paese viene classificato quest’anno in 66esima posizione (83esimo nel rapporto del 2009). Con riferimento alla protezione degli investimenti stranieri, secondo il Doing Business Report del 2010 l’Albania si colloca al 15esimo posto, seguita dalla Slovenia, dalla Serbia, e persino dall’Ungheria e dalla Croazia.
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Ma quindi la scelta della Serbia è solo economica? – L’attrattività della Serbia non arriva solo dai salari bassi, o dal piano di incentivi fiscali e finanziari, e neanche dal fatto che attualmente il paese è al primo posto nella classifica della Banca mondiale in materia di riforme economiche per attrarre investimenti stranieri. Come abbiamo visto da un’analisi veloce della situazione dei Balcani neanche gli altri paesi sono a meno da questo punto di vista.
Ad oggi sono circa duecento gli italiani che hanno investito in Serbia, per un giro d’affari intorno ai due miliardi di euro, e si prevede che fra qualche anno i livelli saranno molto più alti. Sono numerosi i fattori che spingono gli investitori italiani verso la Serbia, come sopra detto, ma c’è un fattore importante (menzionato sopra) che passa inosservato: la Serbia ha un accordo di libero scambio con la Russia, così le merci ivi prodotte possono viaggiare per tutto il mercato ex-sovietico senza pagare alcun dazio.
Da tener presente comunque che per non pagare nessuna tassa doganale ci sono delle regole e delle condizioni: il paese d’origine della merce deve essere la Serbia, è obbligatorio l’acquisto e la fornitura diretti e infine la fornitura deve essere accompagnata dal certificato di origine. C’è tutto l’interesse, quindi, a produrre in Serbia, che è come un “ponte” per tutti gli imprenditori italiani che porta direttamente in Russia. Attualmente Serbia – Russia e l’Italia sono nei ottimi rapporti commerciali, tra i migliori tra tutti i paesi dell’Europa. Per quanto riguarda le esportazioni serbe l’Italia rimane il primo acquirente con la quota del 12,3% mentre la Russia rimante il primo fornitore della Serbia con una quota di mercato pari al 14%. Le esportazioni verso l’Italia il 39,4% in più rispetto al primo trimestre dell’anno scorso. Per quanto riguarda le importazioni dalla Russia si registra un lieve calo (-6,2%) rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.