È passato esattamente un anno dalla mia partenza per il Kosovo. Ho pensato potesse essere bello, in quest’anniversario, dedicargli un pensiero. Quando si parla di Kosovo non è sempre facile trovare le giuste parole che possano suonare più appropriate o più obiettive di altre. D’altronde l’obiettività è ciò a cui si tende quando ci si trova all’interno di un conflitto latente o esploso che sia. Non ci sbilanciamo, cerchiamo di rimanere neutrali, di non farci coinvolgere emotivamente da immagini o racconti di una o dell’altra parte, per infine accorgerci di quanto tutto questo non sia solo impossibile ma inutile. La neutralità ha anch’essa un costo che spesso tendiamo a sottovalutare, per non parlare dell’indifferenza a cui essa può portare. “Odio gli indifferenti” diceva Gramsci, e penso di odiarli un po’ anche io. Allora, ho deciso di dare una mia interpretazione alla storia e non solo di subirla, di giocare una neutralità attiva, una obiettività soggettiva che possa dare un significato e riempire quella parola: Kosovo.
Più volte ho cercato di scrivere qualcosa che potesse rappresentare al meglio un luogo come questo senza di fatto riuscirci. Se oggi dovessi rispondere alla domanda ‘Che cos’è il Kosovo?’, beh, sinceramente non saprei esattamente da dove iniziare né dare una risposta chiara e univoca.
Penso che non esista un’unica interpretazione dei luoghi. Ognuno si costruisce una propria interpretazione delle cose con cui viene a contatto. Il Kosovo è … è … è tante cose. Dopotutto, se ci pensiamo, i luoghi non sono altro che l’idea che noi abbiamo di essi e, in quanto tali, questi non esistono al di fuori della nostra mente. La casa è l’interpretazione che noi diamo a quella data realtà, è il risultato dell’interazione dell’uomo con l’ambiente circostante dal quale scaturiscono determinati risultati.
Così anche il Kosovo, prima di ogni altra cosa, è un’idea. Un’idea che la storia ha trasformato di volta in volta in mito, leggenda, terra promessa e che ha cercato di contenere e cristallizzare all’interno di confini. Gli stessi Balcani, una categoria mentale del quale il Kosovo fa parte, e la loro essenza non possono essere tradotti in cartine geografiche, fissare un loro inizio ed una loro fine, e lo sforzarsi di trovare una giusta definizione attraverso linee immaginarie tracciate su una mappa non ha portato altro che all’inizio del loro filone tragico. Il passaggio dall’idea alla sua implementazione pratica è stata, allo stesso tempo, ragion d’essere e maledizione per questa terra. Le idee spesso sono differenti, possono divergere ed infine entrare in conflitto, ed in mancanza di meccanismi di gestione democratica portano alla frattura, spesso incurabile. Il Kosovo rappresenta una delle tante.
Allora, di chi è il Kosovo, chi ne sono i padroni, come stabilirlo? Domande che non trovano risposte perché, forse, la verità è che la terra non è di nessuno e allo stesso tempo appartiene a tutti. Non siamo stati noi a crearla, ne possiamo rivendicarne alcun diritto di nascita o altro, o escluderne altri dal suo utilizzo. Ma questa ovviamente non è la realtà.
La realtà è che non esistono regole definite per stabilirlo ed ognuno – anche questa volta – cerca di far prevalere la propria visione, che spesso tende a scontrarsi con le altre: la terra è di chi vi è arrivato prima, di chi vi ha vissuto più a lungo, di chi vi ha sepolto più morti, infine di chi riesce ad accaparrarsi il supporto delle Grandi Potenze. Come è stato, è e sempre sarà (amen!).
Perché la storia ci insegna come nazione, governo o territorio non valgono niente se accanto non vi è riconoscimento e supporto; mentre, dal canto loro, supporto e riconoscimento possono creare nazioni, governi e territori là dove non esistono.
Se ci affidiamo alla storia per trovare risposte a queste domande esistenziali, noteremo come anch’essa non sia in grado di affidare definitivamente questa terra a uno o l’altro, perché, nuovamente, non esiste una sola storia ma varie versioni su quanto accaduto, a seconda del meridiano o del parallelo da dove si racconta. La storia non è altro che l’interpretazione dei fatti da parte della mente umana, irrazionale, fallibile, soggettiva che spesso dimentica, falsifica e dove la memoria tende ad essere in aperto contrasto con la veridicità più che esserne pilastro.
La storia non sono i fatti ma ciò che scriviamo di loro, cosa ricordiamo e come lo trasmettiamo alle generazioni future. Nessuno ha torto nel voler rivendicare una terra partendo dalla lettura della propria storia ma allo stesso tempo tutti lo sono. Spesso nei Balcani si tende a partire dal principio per trovare una logica nella storia stessa e si finisce per il cadere preda delle mistificazioni e lacune a cui spesso va incontro nella sua ricostruzione. Onde evitare tutto questo, ho pensato di partire dalla fine, da una data: lo scorso 19 Aprile.
In Italia assistevamo al cadere uno dopo l’altro dei candidati alla Presidenza della Repubblica mentre la leadership del Partito Democratico veniva ‘pugnalata alla schiena’ dalla sua stessa base. Aldilà dell’Adriatico si consumava la catastrofe della tragedia balcanica. Nel teatro greco, la catastrofe rappresentava il passaggio cruciale in cui l’intreccio si scioglie e il dilemma giunge ad una soluzione, per quanta tragica questa possa essere.
Se la questione è ‘Che cos’è il Kosovo?’, risponderò ‘Il Kosovo è!’. Belgrado, con la firma di un accordo con le autorità kosovare sulla questione dello status delle minoranze serbe ancora residenti nel Paese – prevalentemente insediate nella parte settentrionale e costituenti all’incirca il 5,4% della popolazione stando alle stime del 2011 – ha ammesso che qualcosa esiste all’interno del suo territorio.
Il patto, che prevederà la costituzione di un’Unione dei comuni serbi la quale godrà di uno statuto e larga autonomia, la cui esistenza sarà garantita dalle leggi Kosovare, estenderà l’autorità di Pristina su tutto il territorio ‘nazionale’, autorità che fino a ieri si era fermata alle sponde dell’Ibar – fiumiciattolo del Nord che oltre a dividere la città di Mitrovica rappresentava la frontiera de facto tra Kosovo e Serbia.
Insomma, a quanto si dice ‘un accordo storico’ come non se ne vedevano da tempo. Ora, una domanda sorge spontanea: come la storia ricorderà questo evento? Sarà Ivica Dačić, primo ministro serbo, ricordato come un traditore della patria o il suo gesto unica via percorribile? Il mito nazionale serbo sembra così consumarsi come era iniziato: con un tradimento. Il 28 Giugno del 1389 – un giorno sacro per la tradizione serbo-ortodossa meglio conosciuto come Vidovdan – il Principe Lazar, il più potente dei principi serbi sotto il quale vessillo aveva radunato l’intera nobiltà per contrastare l’avanzata del turco invasore, si vide tradito dal suo più fidato comandante, nonché figliastro, Vuk Branković.
La battaglia imperversava e nel momento in cui la Serbia chiedeva l’immolazione ed il sacrificio dei suoi figli, Branković optò per la ritirata dal campo di battaglia lasciando Lazar al suo amaro destino ed un Regno dei Cieli ad attenderlo. Sulle motivazioni di tale gesto, le opinioni sono state discordanti: chi ha supportato la tesi di un tradimento per poter aspirare al trono di Serbia, altri hanno abbracciato l’idea di una ritirata tattica per una riorganizzazione dell’esercito. Sta di fatto che Branković pagò il suo atto.
Fu poi imprigionato dai turchi e morì pochi anni dopo. Tradimento o ritirata strategica che sia stata, la storia ha comunque assolto il cavaliere, il nazionalismo no. Gli eventi della gloriosa Battaglia di Piana dei Merli sono rimasti indelebili nella tradizione serba e lentamente trasformati dalla storia e dal nazionalismo in mito, che si è mantenuto vivo nella memoria di ogni serbo.
Oggi, il Kosovo non è più il mito di un tempo e la sua rievocazione sembra perdere di intensità e rivelarsi per ciò che principalmente è: un problema politico. Belgrado ha ammesso, anche se indirettamente, la sua impossibilità nel continuare sulla via del confronto con Prishtina, minando il suo percorso verso la stabilizzazione e usando i Serbi kosovari come quinta colonna, e ha optato per la ricerca di percorsi alternativi.
Lungi dall’essere il cuore della Serbia, il Kosovo (del Nord) è diventato l’oggetto di scambio sullo scacchiere europeo attraverso il quale negoziare i termini dell’integrazione nell’Unione. La Serbia non è più in grado di mantenere economicamente una Regione che solo sulla Carta rimane ancora parte integrante del suo territorio e i toni nazionalisti di Nikolić si sono dimostrati infine puri slogan di facciata per raccogliere supporto, confermando il percorso Europeo scelto dal Paese, il quale non ha potuto che accelerare il processo di riconciliazione tra le due entità.
Per quanto Dačić non si sia stancato di affermare come questo non sia un riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo e si sia dichiarato contrario all’adesione dello ‘Stato’ presso le Nazioni Unite, sicuramente il Kosovo qualcosa lo è.
Se l’Europa è sempre più vicina, il sogno di una nazione che possa contenere tutti i Serbi è sempre più lontano per non dire fallito – non che prima fosse più realizzabile. Ricordo del mio periodo a Mitrovica e di un ragazzo serbo con cui un giorno ebbi un’interessante conversazione.
Mi disse che il Kosovo per loro non rappresentava semplicemente una provincia ma era un principio costituente della loro identità nazionale; era tra quelle montagne che l’identità serba era stata forgiata e rappresentava una parte della loro anima. Per cinquecento anni avevano pazientato e subito la dominazione ottomana, poi nel 1913 si era compiuta la grande vendetta: la riconquista della terra santa, la ‘Gerusalemme’ serba. Le guerre Jugoslave e l’intervento NATO gli avevano visti nuovamente cacciati dalla ‘loro’ terra: prima la Croazia, poi la Bosnia ed infine il Kosovo.
La termodinamica ci insegna però come ad ogni forza corrisponde un’azione uguale e contraria. Non fu forse la politica nazionalista portata avanti dal regime di Milosevic ad innescare il conflitto e a portarlo aldilà della soglie di accettazione.
Il Kosovo fu l’inizio e la fine: il discorso di Gazimestan, la soppressione dell’autonomia, Rambuillet, l’intervento NATO, l’UNMIK. La storia, scrive Hegel, si ripete sempre due volte, e la seconda è solo una farsa della prima. L’immagine delle decine di migliaia di Kosovaro-Albanesi costretti a lasciare le loro case si è poi riproposta in chiave serba: questa volta furono migliaia di Serbi a lasciare le proprie case, costretti a emigrare, alcuni nel Nord della Provincia, molti di più fuori.
Le violenza degli albanesi sui propri carnefici fu in larga parte giustificata dalle forze di peace-keeping come una reazione legittima collettiva alla guerra. Forse la storia sarebbe potuta andare diversamente e forse l’indipendenza del Kosovo non è stata la strada migliore da percorrere ma l’unica alternativa possibile, per mancanza di idee, volontà politica o interessi dei Grandi.
A volte bisognerebbe guardare la storia con un senso più critico e assumersi le proprie responsabilità, questa molto probabilmente è la grande mancanza dei popoli balcanici. La Serbia fu la prima a scegliere la strada dell’esclusione della popolazione albanese più che una sua integrazione. Una volta caduto il regime di Milosevic non fece molto per distaccarsi da questa visione e da un senso di “Serbitudine” che l’aveva portata a celebrare uomini che rimangono ‘obiettivamente’ criminali di guerra e a farne delle icone nazionali.
Gli albanesi non erano una semplice minoranza in Serbia ma due milioni di persone che su un totale di nove contavano quasi un quarto della popolazione. Ma la storia non è fatta di se o di ma ed il Kosovo, volenti o nolenti, oggi esiste per quanti ancora cerchino di chiudere gli occhi. L’accordo, nel bene e nel male, sicuramente segnerà l’iniziò di una nuova fase nei rapporti tra Belgrado e Pristhina che, si spera, possano trovare nuove forme cooperative nella gestione del conflitto.
Una cosa però va detta, è facile stringere le mani e firmare trattati a Bruxelles, altra cosa è l’implementazione. Oltretutto quando le comunità oggetto dell’accordo non sono state considerate al momento dei negoziati e quasi completamente escluse. I serbi del Kosovo, giustamente mi verrebbe da dire, hanno già alzato le asce di guerra e chiarito che non implementeranno nessun accordo che veda un riconoscimento delle autorità kosovare. Sin dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo – atto dichiarato illegale da parte della Serbia – i serbi della Provincia si sono asserragliati nel Nord del Paese pronti a muovere ‘guerra’, creando uno Stato nello Stato dove l’autorità di Prishtina non aveva effetto e il sistema legislativo ed economico (per quanto inesistente) ha continuato ad essere dipendente da Belgrado (qualcosa che ricorda molto le ‘No Go Area’ dei migliori anni, si fa per dire, dell’Irlanda del Nord).
Chiaro è che i rapporti tra la comunità serba e la comunità albanese non cambieranno dall’oggi al domani con un semplice schiocco di dita, soprattutto dopo che le comunità hanno vissuto per anni in uno stato di completa divisione. La divisione si è radicata lungo barriere etniche che il clima di conflitto latente e la prossimità geografica tra le comunità non ha aiutato ad assottigliare, anzi ha necessitato una loro continua affermazione e riproduzione secondo modelli di interazione conflittuali.
La verità forse, quella che nessuno ha il coraggio o la volontà di dire, è che non si ha idea di come sbloccare una situazione che è stata per larga parte la stessa comunità internazionale ad aiutare a creare e questo accordo non fa altro che istituzionalizzare l’ennesimo status quo esistente. Quella in atto, più che la costruzione di una democrazia civica, sembra essere l’edificazione di uno Stato secondo precedenti linee etniche che tende a legalizzare e istituzionalizzare, una seconda Bosnia.
A mio avviso, tutto ciò, non farà altro che allontanare le comunità sempre più e rendere difficile in futuro una possibile riconciliazione e la creazione di una dimensione comunitaria. Ciò di cui il Kosovo oggi ha bisogno non è tanto l’integrazione dei serbi nelle strutture statali quanto più il dialogo e la ricostruzione delle relazioni interpersonali che la guerra ha distrutto.
Il patto sembra aver messo d’accordo tutti: l’Europa, che a guidato l’accordo ed i negoziati – questo nonostante ad oggi l’Unione Europea non abbia espresso un parere univoco sulla questione dell’indipendenza del Kosovo lasciando ai singoli Stati membri la possibilità di scegliere in merito – la Serbia, un po’ più leggera, meno nazionalista e sempre più europeista ed il Kosovo, che finalmente può godere della piena sovranità interna.
Gl’unici perdenti sembrano essere proprio i Serbi del Kosovo che il trattato voleva salvaguardare come si fa con una specie in estinzione. Abbandonati dalla stessa Belgrado, completamente isolati in uno Stato che non gli appartiene e non riconoscono, l’unica alternativa è piegarsi all’evidenza delle cose (il Kosovo è) o estinguersi. Ah già, dimenticavo … combattere. Si sa, la frustrazione può portare a compiere gesti disperati e violenti che potrebbero minare l’ordine che tanto arduamente ci si è impegnati a costruire.
Il processo di disintegrazione della penisola balcanica, non solo politico ma anche sociale ed economico, prolungatosi per troppo tempo anche se mai abbastanza, che tra conflitti, pulizie etniche e interventi umanitari ha prodotto una mole letteraria non indifferente, sembra così aver raggiunto il suo ultimo capitolo: la stabilità. Cristallizzati all’interno di frontiere inviolabili, sancite e benedette dalla comunità internazionale – nella sua connotazione più Occidentale possibile – i Balcani sembrano finalmente sedati.
Non si spara più ma l’assenza di guerra non si traduce direttamente in pace. La sostenibilità di questi gioielli diplomatici e la loro capacità di evolversi e gestire i propri conflitti secondo logiche cooperative solo la storia c’è lo potrà dire. Ma la storia si fa non solo si subisce e l’Europa potrebbe giocare un ruolo importante nella buona riuscita del progetto. Una completa integrazione dell’area Balcanica potrebbe allentare le frontiere e sedare i toni nazionalisti, creando uno spazio comune dove serbi e albanesi possano finalmente avere la loro ‘Grande Nazione’ ed allo stesso tempo coabitare. Il punto è che il trattato più che sottolineare la forza dell’Europa Unita ne rappresenta la sua debolezza, sarebbe stato possibile fare molto di più ed allo stesso tempo ciò che è stato raggiunto ha potuto essere possibile solo in un momento di pesante crisi. È una corsa contro il tempo: riusciranno i Balcani a sentirsi più europei o la Balcanizzazione d’Europa è già iniziata?
Ora, qual è la morale di questa storia? Nel 1878, le Grandi Potenze si riunirono a Berlino per risolvere la Crisi d’Oriente che stava minando l’Ordine Europeo e rischiava di innescare un conflitti di dimensioni epocali. La soluzione che venne trovata non tenne in conto minimamente delle domande che i popoli dei Balcani avevano a lungo cercato di urlare. Presa squadra e righello, i Grandi Europei dividettero i Balcani secondo logiche che invece di rispondere a principi di nazionalità volevano rappresentare i grandi interessi e difendere a tutti i costi un equilibrio e la sovranità territoriale sul quale si basava. La miccia della polveriera venne allungata di qualche decennio e l’Europa si guadagnò la pace per un po’ e il tempo per armarsi fino ai denti. Poi un caldo pomeriggio d’estate a Sarajevo e come continua la storia tutti la conosciamo. Cosa questa ci ha insegnato … a sbagliare con più precisione.
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