I socialisti sono entrati ieri pomeriggio in Parlamento, per la prima volta dall’inizio dell’attuale legislatura, lo scorso settembre. Ma non si danno per vinti e promettono battaglia finché la loro richiesta di riapertura delle urne del 28 giugno 2009 non sarà soddisfatta.
La crisi
Tutto ha origine dopo i risultati definitivi comunicati i primi di agosto 2009 che davano per vincente la coalizione dei democratici ferma a 70 deputati, uno in meno rispetto al quorum necessario per poter governare. Si evitano elezioni anticipate, governi allargati o tecnici, grazie all’alleanza con i socialisti per l’integrazione di Meta che hanno ottenuto 4 seggi. I socialisti di Rama non ci stanno. Durante i ricorsi avevano appellato più circoscrizioni elettorali per brogli ma il Collegio elettorale della Corte d’Appello ne ha accettato solo uno. A dadi tratti, la richiesta dei socialisti è il riconteggio dei voti e decidono di boicottare il parlamento fino a quando non verrà soddisfatta. Questa è una pratica principalmente berishiana, i democratici l’hanno messa in atto senza grande successo più volte dopo le elezioni parlamentari del 1997 e 2001, vinte dai socialisti.
A 9 anni di distanza, a ruoli invertiti, il contesto è diverso e i socialisti, ora all’opposizione, pensano di avere buone probabilità di riuscirci. I numeri glielo permettono: la loro coalizione ha 66 deputati contro i 74 della maggioranza. Ciò significa rallentare molto l’attività legislativa del parlamento. Per poter approvare una legge bisogna che siano presenti almeno 71 deputati. In altre parole, tutta la maggioranza, governo incluso. Niente malattie, ne viaggi istituzionali all’estero o comunque una concentrazione di leggi da approvare nel momento in cui tutti sono presenti. Inoltre, significa bloccare l’attività di alcuni organi costituzionali quali l’Avvocato del Popolo (l’Ombudsman), i giudici della Corte Costituzionale e di quella di Cassazione. Il primo viene eletto con maggioranza qualificata di tre quinti (84 deputati), gli altri dal Presidente della Repubblica su parere positivo del Parlamento. Lo prevede la Costituzione, in base al principio dei pesi e contrappesi, ideata proprio per far fronte alla deriva autoritaria stentata nei primi anni della transizione durante l’epoca di Berisha I. Settimana scorsa è terminato il mandato dell’Ombudsman e stanno arrivando al termine quelle di 6 giudici costituzionali e 2 della Cassazione. Un altro fattore tira l’acqua al mulino socialista. L’Albania ha richiesto l’aprile dell’anno scorso lo status di paese candidato all’Unione europea. Un passo importante per la fragile democrazia albanese che richiede la realizzazione di riforme condivise dalle parti politiche e in alcuni casi approvati con la maggioranza di tre quinti. Detto in parole povere, senza i socialisti non si va in Europa. Dall’altra parte, Rama vuole evitare emorragie interne. Entrando in parlamento potrebbero perdere qualcuno per strada. Il potere addolcisce tutti. L’ultima volta è successo nel 2007 per l’elezione del Presidente della Repubblica. I democratici al governo dal 2005 non avevano gli 84 voti necessari per poterlo eleggere e le elezioni anticipate sembravano l’unica soluzione. Sono bastati 6 voti socialisti per eleggere Topi, allora il nr.2 dei democratici. Paradossalmente, stare fuori dal parlamento significa avere il controllo sul gruppo parlamentare. Anche perché non mancano le voci contrarie all’interno del Partito Socialista sull’ostruzionismo a oltranza. Alti dirigenti quali Blushi, Malaj, Islami richiedono di porre fine al boicottaggio e indagare sulle elezioni in sede legislativa. Dal canto suo il governo non cede. Ha il vento in poppa. La mossa socialista non è condivisa dal fattore internazionale che vuole la soluzione della crisi dentro le istituzioni. Berisha si dice obbligato a rispettare il verdetto del sovrano e dei giudici che hanno deliberato sui ricorsi presentati. Invita i socialisti a entrare in parlamento e costituire una commissione parlamentare d’inchiesta. Ma il Partito Socialista non accetta, dando il via a una serie di proteste in tutto il paese. Allora i democratici rincarano la dose. Si passa alla pratica della demonizzazione dell’avversario, molto in voga in entrambi gli schieramenti. I socialisti sarebbero ostaggio di un gruppo ristretto vicino a Rama, mafiosi e “punisti”, cioè comunisti legati al regime di Hoxha. Per di più, sarebbe una sinistra antieuropea perché sta bloccando l’adesione del paese all’UE. A novembre, la pressione sui socialisti aumenta. Jozefina Topalli, Presidente del Parlamento albanese dichiara che i mandati dei socialisti decadono in caso di mancato giuramento e di assenza oltre i sei mesi senza giustificato motivo. Lo prevede la Costituzione e interpretare cosa sta per giustificato motivo non farebbe altro che inasprire la crisi. Il fattore internazionale
Il fattore internazionale in Albania ha avuto un ruolo chiave nel superamento delle continue impasse politiche durante la transizione. Quando la politica albanese non riesce a sedersi attorno al tavolo, la comunità internazionale c’è. Si attiva, negozia, esercita la sua pressione, bacchetta la classe dirigente albanese e l’accordo si trova. Le elezioni parlamentari del 28 giugno sono stati seguiti da molti osservatori internazionali. La Missione più importante è quella dell’OSCE, l’ODIHR, che nel suo report finale ha riconosciuto irregolarità durante le elezioni ma non tali da compromettere il risultato finale. Tutte le istituzioni internazionali presenti in Albania quali la Delegazione della Commissione Europea e le rappresentanze diplomatiche dei paesi europei e degli Stati Uniti non si scompongono e richiedono la soluzione della crisi per via istituzionale. Per poterlo fare i socialisti dovrebbero entrare in parlamento. A gennaio si intensificano i richiami anche da parte del Consiglio d’Europa. La sua Assemblea parlamentare richiede l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta e il ritorno dei socialisti in Parlamento. Il 28 gennaio scorso approva anche la risoluzione 1709 sul funzionamento delle istituzioni democratiche in Albania, riconoscendo nel Presidente della Repubblica, Bamir Topi, il negoziatore per l’uscita dalla crisi con il sostegno della comunità internazionale. Inoltre, chiede ai suoi gruppi parlamentari di esercitare pressione sui partiti albanesi. Invece il 22 febbraio scorso il Comitato Presidenziale dell’Assemblea si reca in Albania per verificare in loco gli sforzi del Presidente Topi. La mediazione di Topi
Durante la crisi, il Presidente Topi ha lanciato più volte messaggi di riconciliazione, dicendosi pronto a mediare se le parti si sarebbero dimostrati aperte al dialogo. È sostenuto nella sua missione dalla comunità internazionale. A gennaio inizia gli incontri con Helmut Lohan, Capo della delegazione della Commissione Europea in Albania, e l’ambasciatore spagnolo Manuel Montobio de Balanse, il cui paese ha la presidenza di turno dell’UE. A loro volta i due rappresentanti europei si incontrano con i due leader principali, Berisha e Rama. Dopo una serie di negoziati si arriva al primo incontro tra Berisha e Rama il 13 febbraio scorso. Topi non ha ancora una piattaforma, vuole sentire le parti. Un incontro in cui ognuno sta dietro la propria trincea. La settimana successiva, Topi incontra separatamente i due leader ma non ci sono proposte concrete ne contestazioni. Rama richiede indagini incondizionate che significa anche la riapertura delle urne, Berisha solo indagini parlamentari. In verità non esiste un quadro legislativo che possa permettere il riconteggio dei voti una volta esaurite le procedure di ricorso previste dal Codice Elettorale. Servirebbe una legge ad hoc che i socialisti hanno preparato ma per presentare il disegno bisogna che entrino in parlamento. I socialisti in Parlamento
Martedì scorso, arriva a Tirana anche Hannes Svoboda, VicePresidente del Gruppo socialista al Parlamento Europeo per incontrare Rama. Riconosce la battaglia dei socialisti per la trasparenza delle elezioni che andrebbe fatta in par
lamento. Per Svoboda, anche l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, interessata alla legittimità delle elezioni, si orienterebbe in questa direzione coinvolgendo la Commissione di Venezia nel processo di trasparenza che potrebbe non escludere la riapertura delle urne. Il giorno dopo il gruppo parlamentare socialista decide di entrare in parlamento senza rinunciare alla sua richiesta. La strategia dei socialisti è ovvia. Entrare in parlamento per prestare giuramento e presentare due disegni di legge. Il primo istituisce una commissione parlamentare d’indagine ad hoc sulle elezioni del 28 giugno con competenze illimitate tra cui anche il riconteggio dei voti. Il secondo modifica la legge attuale sulle commissioni parlamentari d’inchiesta, dandoli il potere di riaprire le urne nei seggi contestati su richiesta dei partiti. In altre parole, non perdono i mandati, li ipotecano per altri sei mesi, evitano scissioni interne e si ripresentano in parlamento appena i democratici si dimostrano disponibili a lavorare sulle loro proposte. La cronaca di ieri pomeriggio è da domenica sportiva. Aula gremita, schieramenti in completo, rappresentanze diplomatiche nelle logge. Dopo il giuramento, in aula è Gramoz Ruçi, deputato e Presidente dell’Assemblea nazionale del Partito Socialista a passare la palla ai democratici. “Siamo qui per consegnarvi le chiavi che aprono la porta al nostro ritorno definitivo in parlamento. Sta alla maggioranza in quest’aula decidere e se giustizia non sarà fatta, protesteremo all’infinito”, dice mostrando ai colleghi il fascicolo con i due disegni di legge. Ora tocca ai democratici che respingono il colpo prima con Astrit Patozi, loro capogruppo, e dopo con Berisha. Ruci riprende la parola per invitare la maggioranza a chiudere la seduta e riflettere sulle proposte dei socialisti, altrimenti lasciano l’aula. Ed è questo che succede sotto gli occhi degli arbitri internazionali che seguono tutto in simultanea dalle logge, e di tutti i cittadini albanesi incollati davanti alla tv nella speranza che la politica albanese inizi a maturare e condividere valori democratici. Perché non c’è quadro legislativo né marchingegni istituzionali che possano tenere di fronte ad una classe politica legata al potere e intrisa con gruppi di interessi economici a scapito del bene comune.