Pensavamo di averne vista abbastanza di acqua scendere dal cielo albanese, di immagini televisive di povere case che sembravano edificate in mezzo ad un corso fluviale, di strade con i tombini che vomitavano acqua di color marrone, quando giovedì scorso, 7 gennaio viaggiavamo verso Scutari per raggiungere il confine col Montenegro.
Facevamo ritorno a casa concludendo il nostro soggiorno albanese, reso caldo, come sempre, dall’accoglienza e dal senso dell’ospitalità degli amici albanesi, ma davvero inclemente sotto il profilo metereologico, scandito giorno per giorno dalla pioggia e dall’emergenza alluvione al nord del Paese, tra Lezhe, dove abitavamo, a Scutari dove ci siamo spesso recati per lavoro.
C’era stato giusto il tempo per dare sfogo alla voglia di salutare il 2010 con un trionfo di botti e fuochi d’artificio la notte di San Silvestro. Tutti per strada nella piazza principale di Lezhe oppure affacciati ai balconi, per lanciare i botti verso il cielo capriccioso oppure semplicemente per godersi lo spettacolo con il naso all’insù, fino al mattino.
Ma poi, il giorno dopo a calmare i bollenti spiriti e a cancellare la spensieratezza della festa, aveva provveduto nuovamente l’acqua.
Il 2 gennaio eravamo a Scutari, di fronte al pane cotto alla brace accompagnato dal formaggio tipico delle montagne e da un buon bicchiere di Kallmet, vino saporitissimo del nord. Accanto a noi il fuoco del forno a legna scoppiettava.
Dalla finestra un fiotto di acqua scendeva a cascata dalla gronda. Bora, la nostra amica, raccontava per sdrammatizzare: « la pioggia é una condizione normale a Scutari ». Un detto popolare infatti recita « é impossibile vedere un abitante di Scutari asciutto ed uno di Lezhe pettinato » per via, ovviamente, della pioggia nel primo caso e del vento nel secondo.
Ma di acqua ne stava venendo giù veramente troppa. Durante l’intera settimana, subito dopo il capodanno, i telegiornali hanno mostrato le immagini di Sali Berisha, ed i suoi ministri che si recavano nelle zone alluvionate, o a rischio di esondazione, e commentavano la situazione con volto teso ma tuttavia rassicurando la popolazione. Frattanto i primi villaggi venivano evacuati.
Era emergenza maltempo. Si parlava insistentemente di diminuire la pressione dell’acqua nelle dighe, con delle aperture controllate, di far quindi defluire l’acqua a valle, nel Drin.
Tanta gente si soffermava sui ponti a scrutare il fiume dall’aspetto normalmente inoffensivo al quale le pioggie davano la dignità di un corso impetuoso. Il Drin sembrava proprio arrabbiato.
Scuro e agitato da flutti che parevano di mare in tempesta. Il direttore della scuola di Bregdet, villaggio nei pressi di Lezhe, nostro amico da tanti anni, ci telefonava informandoci che l’acqua aveva invaso Talle, località che sorge nei pressi del mare, quasi cancellandola e spingendosi fino ai bunker, baluardo del passato regime, che quasi costeggiano l’edificio.
Ma si era fermata là, per fortuna. Ci raccomandava di prendere un’altra strada caso mai volessimo raggiungerlo perché quella usuale era impraticabile. Le suore missionarie di Pllane, sempre in quella zona, ma ai piedi delle montagne, ci rassicuravano invece che tutto andava bene. Tanta pioggia ma niente disastri. Infine il 7 mattina intorno alle 13, sulla strada del ritorno, diretti nuovamente a Scutari, poco prima del bivio per Vilipoje, la gravità della situazione ci si mostrava in tutta la sua evidenza. Un poliziotto ci fermava e scandiva in albanese «molta acqua molta acqua ».
Dopo pochi metri ci aspettava un altro blocco ed un altro poliziotto. Ci informava in inglese che con la nostra macchina potevamo provare a passare. Ma « siate prudenti », ci raccomandava. Eccoci dunque al al punto in cui il fiume era uscito dagli argini. La strada non c’era più, era invasa da circa 60 centimetri d’acqua dai toni tra il grigio ed il marrone con onde basse che si frangevano sui pochi mezzi (tutti camion o fuori strada) che venivano autorizzati ad attraversare.
Bloccare quel passaggio che conduce a Scutari e al confine con il Montenegro, d’altronde, sarebbe significato, isolare il nord del Paese. Più avanti stazionavano camionette militari e decine di persone che seguivano con lo sguardo chi si lanciava nell’attraversamento. I camion passavano lentamente. Una mercedes era ferma, sommersa fino ai finestrini, in mezzo all’acqua.
Decidevamo di attraversare. Di quei pochissimi minuti che a noi sono sembrati surreali ed eterni, restano le foto ed il ricordo. Foto impresse nella macchina fotografica e negli occhi, alcune delle quali accompagnano questo articolo. E ci restano ugualmente negli occhi e nel cuore le immagini e le fotografie di umili case con l’acqua fino alla porta d’ingresso.
Di macchine che sembravano galleggiare. Di campi di calcio cancellati, trasformati in piscine dove solo l’estremità superiore della porta, tradiva l’esistenza di un normale campo da calcio. Di persone che spalavano fango. Di ragazzini che si muovevano nei pressi della propria modesta abitazione con barche improvvisate. Di un monumento che sembrava ergersi su un laghetto, laddove invece sorgeva un giardino. Di difficoltà del vivere quotidiano.
Di dolore. Ma soprattutto di tanta dignità albanese. L’Albania del nord, terra ruvida e ospitale, mai avara di colori forti e sensazioni intense, ci ha lasciato questa volta un ricordo amaro.