La storia dalla casa che secondo Carla Del Ponte e’ servita come clinica di interventi chirurgici. La testimonianza di Abdulla Katuci che vuole confrontarsi con lei per scoprire chi dei due “mente”. Perche’ i medici albanesi sostengono che fare trapianto di organi oppure espianto di organi con scopo di trapianto in Albania, e’ come dire che “da Tirana vengono lanciati nello spazio razzi cosmici”.
La versione dei procuratori albanesi su quello che è descritto nelle due pagine del libro della Del Ponte sull’Albania.
Nella casa di Abdulla Katuçi alla località Rripë di Gurra e Madhe, a 116 chilometri da Tirana, ci accoglie il muggito di una mucca. L’afa ci attanaglia e a casa troviamo solo una signora anziana che, dopo averci capito con difficoltà, ci invita ad aspettare finché non arrivano i suoi familiari. E proprio di questa casa fortificata, o kulla come la si chiama in albanese, parla Carla del Ponte nel suo “La Caccia, io e i criminali di guerra”, definendola “la casa gialla dove nel 1999, dai 100 ai 300 militari e civili serbi sono stati espiantati gli organi con scopo di trapianto”.
Mentre aspettiamo il capofamiglia Abdulla Katuçi, approfittiamo per dare un’occhiata in giro. È una casa di due piani con scale di legno vecchie e scurite dall’umidità, con feritoie strette e alte al posto delle finestre. Mersin Katuçi, figlio di Abdullah, arriva zoppicando perché, come egli stesso racconta, soffre di reumatismo ed è appena tornato dalle terme. Mersin va subito al sodo. “Quello che ci è successo non è mai accaduto ad altri e se lo stato non indaga sulla questione, mi occuperò personalmente”, dice il quarantottenne e inizia a rivelare come la sua casa è finita nelle pagine di uno dei libri, attualmente, più discussi al mondo.
“Non ho fatto male a nessuno, non ho faide con nessuno, in questa casa non sono mai entrati serbi e non ci sono mai stati militari kosovari”, racconta Mersin, mentre spiega che ha scritto al Procuratore Generale della Repubblica e al Primo Ministro per richiedere di far luce sulla storia in cui è stato coinvolto. Le due cariche delle stato non gli hanno mai risposto. “Gli investigatori dell’Aia sono stati in questa casa e non hanno trovato nessuna informazione o indizio per poter aprire un’inchiesta su questo caso”, continua il suo racconto Mersin. All’inizio del 2004, il Procuratore di Burrel, Arben Dyla, aveva accompagnato il gruppo degli investigatori arrivati dall’Aia per ispezionare la casa dei Katuçi. Nel suo libro, Del Ponte scrive che nelle vicinanze della casa erano stati trovati flaconi per medicine, siringhe e altro materiale utilizzabili negli interventi chirurgici, ma che non erano stati sufficienti per poter avviare un’inchiesta.
L’HRW, il colore della casa e l’onore di Abdullah
Fred Abrahams, ricercatore senior dell’organizzazione Human Rights Watch, dichiara che i dubbi sul traffico di organi sono lontani dall’essere dimostrabili, ma comunque “meritano di essere indagati”. Per questo motivo, l’HRW ha richiesto ufficialmente l’inizio di inchieste ai governi del Kosovo e dell’Albania. Entrambi i governi, esprimendosi in merito alla richiesta, hanno sottolineato la mancanza di prove sufficienti per poter riaprire l’inchiesta e hanno bollato le accuse di Del Ponte come false. Il Primo Ministro albanese Sali Berisha, in un intervista alla BBC, ha dichiarato che era stata effettuata “un’investigazione approfondita ma non vi erano stati riscontri positivi”. Lo stesso è stato affermato anche dalle autorità di Prishtina. Fred Abrahams, in un comunicato ufficiale dell’HRW, sostiene che anche gli investigatori dell’Aia avevano riscontrato il colore giallo nella parte esterna della casa, seppur fosse scolorita e si trovasse solo in una fascia ristretta.
Nei tre angoli della kulla abbiamo trovato tracce del colore giallo descritto nel libro di Del Ponte, ma la casa non è mai stata tinteggiata tutta in giallo. É quanto racconta Dashuria, la figlia ventenne di Mersin: “Nel 2001 (contrariamente da quanto sostenuto da Del Ponte che la casa era gialla nel 1999 – nda) abbiamo imbiancata la casa perché avevamo il matrimonio di mio fratello, ma nella parte esterna abbiamo tinteggiato solo la fascia più bassa della casa”. Né Dashuri, né suo padre Mersin e né suo nonno Abdulla Katuçi, sanno spiegarsi come mai tra le tante case dipinte tutto di giallo, dall’entrata della zona di Gurra e fino alla località di Rripa, è stata scelta proprio la loro. “Mi voglio confrontare con questa signora per vedere se sono io a mentire o è lei a farlo. E se le accuse vengono provate che venga impiccato”, dice Abdulla, un uomo sui ottanta, curvo sul suo bastone, avvolto dentro la sua giacca vecchia e intervenuto per la prima volta nella nostra conversazione. Il suo onore è stato infangato, almeno questa è l’interpretazione che l’anziano Abdulla da ad una delle questioni più rumorose del momento nei Balcani. “Non ho fatto male a nessuno… e non ho mai fatto quelle orribili cose che si dicono su di me”, continua Abdulla mentre colpisce con il bastone la terra nel cortile della sua kulla.
I particolari della storia secondo i Katuçi
Secondo i Katuçi, la storia è iniziata verso la fine del 2003, quando due stranieri si presentarono come costruttori della strada “Rruga e Arbrit” che passa alcune montagne più in là, e hanno chiesto ai Katuçi di affittarli la casa. “Loro sono venuti qui con Mustafa Likursi che lavora come autista con un furgone perché la loro macchina si era rotta”, racconta Mersin. Ma nessuno non si era preoccupato di chiedere i loro nomi e di osservarne i tratti somatici. Uno di loro si era presentato come un montenegrino di Scutari. Mustafa, l’autista che li ha accompagnati e che incontriamo per strada mentre fa scendere i suoi passeggeri, dice che le due persone avevano viaggiato con la sua macchina ma non si ricorda se avevano delle attrezzature con loro.
“Guardavano intorno, ma non erano concentrato sulla strada e quando siamo arrivati alla casa di Abdullah, mi hanno chiesto chi fosse il proprietario”, continua il suo racconto Mustafa. Le due persone gli avevano chiesto di portarli nella casa dei Katuçi. A quest’ultimi avevano chiesto di affittarli la casa e in cambio li avrebbero pagato abbastanza per poter vivere bene altrove. “Useremo la casa per accomodare gli operai”, avevano detto i due stranieri.
Mersin e Abdullah non avevano accettato di liberare la propria casa in cambio di soldi. “Noi siamo contadini, sappiamo solo lavorare la terra, altrove non avremmo saputo come arrangiarsi”, spiega il quarantottenne il motivo perché non ha accettato l’offerta dei due stranieri, offrendoli comunque in affitto la metà delle stanze. Il giorno successivo, Mustafa aveva accompagnato uno dei due stranieri dall’altra parte del torrente, girandogli attorno, perché nel 2003 la strada non asfaltata del villaggio non andava oltre il torrente, e il ponte che oggi collega la casa dei Katuçi con quella dei loro vicini è stato costruito un anno fa. Dopo averlo accompagnato dall’altra parte, lo straniero si era diretto verso Burrel e da quel giorno non si è più visto. Nel diario degli eventi rari per loro c’è anche l’arrivo di una macchina dai vetri scuri che si era allontanata dopo aver fotografato più volte la casa. I Katuçi hanno collegato i due stranieri con gli eventi che si sono verificati successivamente solo quando nel febbraio del 2004 si sono presentati una dozzina di persone, parte del gruppo investigativo dell’Aia. In quel momento, i Katuçi hanno imparato che si trattava di una storia con serbi imprigionati e espianto di organi. Per nove ore di seguito, erano stati obbligati di stare fuori al freddo ghiacciale di febbraio, mentre gli investigatori stranieri setacciavano ogni angolo della casa, mettendola sotto sopra. Alla sera dello stesso giorno, gli investigatori avevano provato di rilevare le tracce di sangue con l’utilizzo di una soluzione che le rende fosforescenti in tutte le stanze e in cucina dove erano state trovate macchie di sangue.
“Li abbiamo spiegato che in questo posto tagliamo la carne e il tronco di legno che utilizziamo per questo lavoro ce l’ho di là”, racconta Mersin, aggiungendo che sua moglie aveva partorito tempo fa in questa stanza che all’epoca non era pavimentata. La stanza scurita dal fumo di una vecchia stufa a legno è stata intonacata e pavimentata nel 2001. È ammobiliata in modo semplice con due divani di legno e un armadio a muro dove si possono vedere due o tre pentole. Abdulla insiste per farci visitare ogni angolo della casa e ci accompagna da una stanza all’altra della kulla costruita nel 1965, arredata con mobili di legno vecchi, arche e cammini lavorati con aquile e stelle di David.
Le tracce di sangue e gli altri indizzi
Chuck Sudetic, coautore del libro di Carla Del Ponte ed ex giornalista del New York Times per i Balcani, in un intervista per RaiNews, ha dichiarato che le tracce di sangue erano sparse sul pavimento in modo tale che lasciavano pulita una parte a forma di rettangolo, dando l’impressione che prima ci fosse stato posato un tavolo da chirurgia. “Gli investigatori stranieri hanno scoperto le tracce di sangue, ma non potevano accertare se fossero di sangue umano o animale. Anche la parete si copri di macchie fosforescenti omogenee”, rivela il Procuratore di Burrel, Arben Dyla, che era stato presente durante l’ispezione. Secondo Dyla, considerando che la casa era stata intonacata nel 2001, probabilmente, l‘uniformità delle macchie fosforescenti sulla parete si doveva alla preparazione dell’intonaco sul posto dove la famiglia usava tagliare la carne e dove aveva partito la moglie di Mersin. Ma gli investigatori non avevano testato il soffitto per rilevare la presenza di sangue, cosa che poteva provare quanto ipotizzato da Dyla.
“Gli investigatori avevano difficoltà a capire come una donna poteva partorire a casa, ma loro non sapevano che in questa zona non ci sono ambulanze e trovare una macchina per andare fino a Burrel con la strada che allora era messo peggio, ci volevano almeno due ore e una donna incinta poteva partorire per strada”, racconta il procuratore.
Egli ricorda che gli ispettori dell’Aia avevano trovato due o tre flaconi simili a quelli della penicillina, ma non avevano portato niente con loro, non avevano richiesto ai Katuçi di firmare verbali e non avevano analizzato il contenuto dei flaconi. “Hanno trovato anche due tovaglie di plastica di quelle che si trovavano sul mercato una volta e hanno detto che queste erano stato usate per isolarsi dai microbi”, racconta Dashuria. Né lei e né su padre ricordano di aver firmato verbali sui materiali che erano stati trovati a casa loro e nel terreno nei suoi dintorni, proprietà dei Katuçi. Nel suo libro, Del Ponte non dimentica di riportare anche questi dettagli. Ma ella non chiarisce se vi è mai stata una perizia che avesse provato che il contenuto dei flaconi venisse utilizzato per interventi chirurgici, solo solleva il dubbio che i flaconi “erano simili con quelli che si usano negli interventi per l’anestesia dei muscoli”
Le reazioni dei Procuratori e medici albanesi Nelle due pagine del libro dedicate all’Albania, Del Ponte descrive anche la collaborazione con lo stato albanese, usando il termine collaborazione tra virgolette. Ma Agim Neza, ex consigliere del Procuratore Generale della Repubblica, dichiara per il quotidiano Standard che alla Del Ponte è stata offerta tutta la collaborazione necessaria e in nessun momento ella aveva espresso la sua insoddisfazione.“Voglio ribadire che mi stupisce il fatto che una persona rispettata come l’ex Procuratore del Tribunale dell’Aia, scrive eventi immaginari e lo fa calpestando la dignità degli albanesi”, dice Neza. Le stesse parole ripete anche Dyla, citato nel libro per aver detto agli investigatori dell’Aja che alcuni dei suoi parenti erano stati con l’UCK e che “se l’hanno fatto, hanno fatto bene a farlo ai serbi”. “Se io fossi stato procuratore all’Aia e mi avessero rapportato dichiarazioni simili fatte da un altro procuratore, avrei immediatamente richiesto al suo superiore di sospenderlo dall’incarico o almeno gli avrei passato l’informazione”, dice Dyla e ribadisce di non aver mai detto quelle parole. “O Carla mente, oppure coloro che gliel’hanno detto mentono… Mi sto consultano con i miei superiori per capire come poter seguire questo caso”.
Egli si è interessato del caso anche dopo l’allontanamento degli investigatori dell’Aia e dice di non aver trovato nessun’orma di verità nelle supposizioni sollevate. Il Procuratore racconta di aver interrogato più informatori e nessuno di loro non ha fornito informazioni che nel villaggio incriminato o nelle sue vicinanze ci fosse mai stata un carcere o una clinica di trapianti. “Dire che in Albania è stato fatto espianto di organi per scopo di trapianto e come comunicare che domani verrà lanciata nello spazio una nave cosmica da Tirana”, dichiara il Professor Nestor Thereska, primario dell’Unità di Nefrologia del Centro Ospedaliero Universitario di Tirana, che da anni sta lottando per l’apertura di un reparto per il trapianto del rene in Albania. “Non mi risulta che in Albania fin ad oggi sia stata fatto un trapianto di organi in ospedale”, spiega il Prof. Thereska, mentre parla delle condizioni igieniche che servirebbero per avere successo in questo intervento chirurgico molto delicato.
Egli dice che un organo può essere espiantato meccanicamente, me le condizioni in cui viene effettuato l’espianto per poter riutilizzare l’organo successivamente per il trapianto dovrebbero essere moderni e la sterilità massima. Secondo il professore, “solo nel caso in cui siano atterrati a Burrel con una squadra di UFO per portare tutto il necessario”, le asserzioni della Del Ponte possono essere vere. Il coautore del libro della Del Ponte la pensa diversamente. In un intervista rilasciata al quotidiano svizzero NZZ, Sudetic dice che “in questo caso c’erano informazioni affidabili per il trasferimento di serbi dal Kosovo in Albania, ai quali sono stati espiantati gli organi”. Domandato sul motivo per i quale la Procura non avesse svolto nessuna inchiesta in merito, egli nella stessa intervista sostiene che “c’erano vari motivi per i quali la Procura non ha indagato sull’accaduto. Tra l’altro il tempo a disposizione del Tribunale era limitata e non poteva indagare dopo l’entrata delle truppe NATO in Kosovo, periodo nel quale dovrebbero essere stati effettuati anche gli interventi chirurgici”. Perché e come è iniziato questa storia? Nel suo libro, Del Ponte solleva il dubbio che senza un’indagine completa questa storia resterà una “leggenda urbana”, una di quelle storie che vengono fuori durante le guerre per attaccare il nemico. Lo stesso afferma anche Sudetic, nella sua intervista per il quotidiano svizzero NZZ, perché a Del Ponte è stato vietato esprimersi in pubblico sul libro in quanto copre il ruolo di ambasciatrice della Svizzera in Brasile. Sudetic sottolinea che “le accuse per traffico di organi si fanno durante le guerre per discreditare il nemico”.
Ma se sono state inventate, come e chi lo ha fatto?
Nessuno può dare un risposta a questa domanda. Sicuramente neanche il cimitero vicino alla strada che attraversa la località Rripë, usato secondo Del Ponte per seppellire le vittime non svela nulla sulla veridicità delle asserzioni. La cosa strana è che i procuratori dell’Aja hanno voluto aprire le tombe, ma dopo che li è stato chiesto di fare una richiesta ufficiale per la riesumazione, si sono ritirati e si sono limitati a domandare due o tre contadini i cui cari riposano in queste tombe. Inoltre, i procuratori si sono ritirati anche dall’apertura del pavimento di legno di una delle stanze nel piano terra della kulla dei Katuçi dopo che li è stato chiesto di indennizzare i danni.“Si sono beccati inutilmente con Abdullah”, ci dice un uomo della zona di Gurra. Da queste parti, i contadini arano la terra con i cavalli, l’energia elettrica manca dalla mattina presto alle quattro di pomeriggio e non ci sono tracce della clinica fantasma.
Mentre ci allontaniamo dalla kulla di Abdulla Katuçi, si sente ancora il muggito della mucca dalla stalla di mattoni di cemento costruita di fianco alla kulla, e l’anziano ci saluta, dicendo “Che mi confrontino con lei e vedano se sono io a mentire o è Carla Del Ponte a farlo”.
Note: Vladimir Vukçeviç, Procuratore dei Crimini di guerra in Serbia, dichiara che ha avviato l’inchiesta e che interogerà Carla Del Ponte. Secondo il Procuratore, due camion con serbi e non albanesi sono stati portati dal Kosovo a Burrel per espiantarli gli organi.400 è il numero dei serbi scomparsi durante la guerra.
Dai 100 ai 300 è il numero dei serbi e dei non serbi di origine russa, rom e albanese che si sostiene siano stati portati alla località Rripë di Gurra e Madhe per l’espianto degli organi (è strana la presenza di russi nella lista e non si sa come e dove furono catturati questi).
Scritto da Vladimir Karaj, pubblicato sul quotidiano Standard del 3 maggio 2008.
Tradotto per Albanianews.it da Alban Trungu.