La Comunità Internazionale di Capodarco è una ONG italiana impegnata in Albania nel campo della disabilità. Albania News ha intervistato Riccardo Sollini, responsabile dei progetti in Albania.
La disabilità è uno di quei fenomeni sociali vissuto con fastidio e pudore dalla società albanese, per anni rimasto invisibile e fuori dai grandi dibattiti dell’opinione pubblica. Nonostante i tanti ostacoli legati alla maturazione di una coscienza sociale sul fenomeno, alla mancanza di una cultura della disabilità e di una politica istituzionale consolidata, sembra che piano piano qualcosa si stia muovendo e costruendo grazie soprattutto alla cooperazione internazionale impegnata su vari livelli.
Una delle ong straniere coinvolte in questo ambito è anche la Comunità Internazionale di Capodarco (CICa), forte dell’esperienza pluriennale della Comunità di Capodarco, una realtà di riferimento in Italia nel campo della disabilità. CICa opera in Albania dal 1996 e attualmente, oltre alla gestione del Centro socio-educativo Primavera, è impegnata nella diffusione della cultura della disabilità e l’elaborazione delle politiche in questo campo. È presente anche in Kosovo dove gestisce un centro diurno per disabili mentali.
Riccardo Sollini, Responsabile dei progetti in Albania, ci ha raccontato l’esperienza di CICa nel paese delle aquile, il modo in cui la società albanese vive la disabilità e le sue impressioni sulla quotidianità albanese.
Da quanti anni la Comunità Internazionale di Capodarco lavora in Albania e quali sono i progetti più consolidati?
La Comunità Internazionale di Capodarco lavora in Albania dal 1996. Il nostro percorso è iniziato su richiesta di CRIC, un’altra ong italiana già presente in Albania che si è trovata a dover accogliere dei disabili e ci ha chiamato perché in quel campo avevamo più esperienza. La situazione era ancora drammatica e abbiamo iniziato a fare un lavoro di accoglienza, fisioterapia e reinserimento lavorativo dei disabili. Un percorso che è andato avanti fino al 1999, anno in cui è scoppiata la guerra in Kosovo. Abbiamo aperto in quel momento un campo profughi, l’unico attrezzato per l’accoglienza dei disabili e lo abbiamo tenuto in piedi tra il 1999 e il 2000 con l’aiuto dell’UNHCR.
Dal 2000 è iniziato un’altra esperienza importante tuttora in atto: il Centro socio-educativo Primavera per bambini disabili . All’epoca abbiamo notato che c’erano due tipi di esigenze. La prima di fare qualcosa per questi bambini che non erano seguiti né dal punto di vista sanitaria né da quello sociale. Dall’altra parte, c’era bisogno soprattutto di costruire una cultura della disabilità, intesa nel senso di riuscire ad accogliere il disabile all’interno della società, dargli la prospettiva di poter avere un lavoro, una famiglia, piuttosto che essere riconosciuto a livello politico.
Il Centro Primavera ha una palestra di fisioterapia rivolta ai bambini, e delle stanze in cui fanno dei percorsi di sviluppo cognitivo. Negli ultimi anni, il Ministero degli Esteri italiano ha finanziato un nostro progetto rivolto a questo centro che ci ha permesso di fare un ulteriore scatto di qualità: adesso ci occupiamo principalmente di bambini con disabilità mentale e psichica, soprattutto autistici, che vengono nel centro e fanno un percorso sia di tipo cognitivo che di reinserimento sociale. In tutto questo percorso abbiamo cercato di portare avanti un’azione politica stretta con i ministeri per riuscire a far valorizzare quello che abbiamo noi ma soprattutto a favore delle famiglie.
Abbiamo cercato di mettere in piedi un’associazione delle famiglie perché prendessero coscienza del fatto che non sono sole e possono affrontare insieme un problema comune, e questo passo – secondo me – diventa fondamentale nel senso che spesso per la storia albanese le persone sono inevitabilmente costretti a muoversi da sole. Hanno poca coscienza dei propri diritti, subiscono quello che li viene imposto.
Abbiamo in qualche modo cercato di dare un piccolo contributo anche in questo senso. Sicuramente dei passi avanti sono stati fatti, sia dal punto di vista politico con una presa di coscienza maggiore da parte delle istituzioni sulla questione della disabilità, sia dal punto di vista sociale con la presa di coscienza delle famiglie che adesso pretendono quello che li spetta per legge: la pensione di invalidità piuttosto che l’inserimento dei bambini nelle scuole pubbliche.
Nella vostra esperienza come viene vissuta la disabilità in Albania dalle famiglie, la società, le istituzioni?
Il disabile vale niente. Sul versante della disabilità ho girato tutta l’Albania. Ho visto sia i manicomi sia i vari centri per disabili, e la situazione è devastante, al di là di quello che possiamo raccontarci. A Tirana la situazione è oggettivamente difficile anche se la presenza delle ong straniere, ma soprattutto la crescita della coscienza tra la popolazione di Tirana ha permesso una maggiore integrazione. Va detto che quello che rimane è poco. Dal punto di vista politico, la stesura del nuovo piano strategico per la disabilità rimane carta, non è applicato, ed è un aspetto che diventa già un problema. Le istituzioni pensano che basti scrivere le cose per poterle fare.
Poi manca il passaggio successivo dell’applicazione. Probabilmente la presenza eccessiva delle ong ha fatto sì che all’interno delle istituzioni stesse crescesse la coscienza che di quell’ambito si occupano gli stranieri, e quindi automaticamente diventa un delegare quello che invece dovrebbe fare lo stato. Dal punto di vista delle famiglie esiste ancora una chiusura enorme, che dipende soprattutto dall’origine da cui provengono le famiglie.
Anche a Tirana le famiglie che vengono sia dal sud che dal nord hanno una concezione molto chiusa verso il disabile, quindi tendono molto a tenerlo chiuso in casa. Noi abbiamo avuto ragazzi al centro che non erano mai usciti di casa per 15 -16 anni di seguito, con tutto quello che ne deriva sia a livello sanitario che sociale. Manca proprio, e si sta costruendo piano piano la coscienza e la cultura della disabilità di cui parlavo prima, nel senso di concepire il disabile come persona.
Altro discorso completamente diverso è quello che può avvenire per il disabile mentale. I manicomi di Elbasan piuttosto che quelli di Scutari o Valona, sono ancora aperti e pieni, e soprattutto quello di Elbasan versa in una situazione drammatica . Sono stato l’anno scorso durante questo periodo più o meno. Ci sono circa 250 persone chiuse lì dentro da oltre 40 anni, abbandonate a se stesse, con un livello di sporcizia enorme, quindi è una situazione abbastanza precaria.
Una situazione diversa c’è a Tirana e Scutari dove è stato fatto un’azione di deistituzionalizzazione del disabile mentale. Hanno aperto delle case di accoglienza, delle case famiglia, chiudendo la parte manicomiale e lasciando il reparto. In quelle realtà si stanno movendo meglio. Ma dall’altra parte, manca pure una struttura di reti di accoglienza del disabile nel territorio. Noi abbiamo bambini magari con disturbi psichiatrici che arrivano al centro, fanno un percorso, poi quando crescono, manca un passaggio successivo dove poterli inserire se non nell’ospedale psichiatrico che però spersonalizza la persona e non le permette di vivere, è un contenimento per la famiglia. Mi trovo in Albania da tre anni e mezzo.
I primi due anni e mezzo sono stato fisso e ho vissuto la quotidianità albanese. Oggettivamente un passaggio c’è stato se non altro per l’attenzione che i media danno alla questione. Quindi è più facile vedere che in televisione si parli di disabilità oppure si facciano servizi sui centri specializzati. C’è una crescita, ma la strada rimane molto lunga ancora.
L’opinione pubblica albanese come vive la disabilità? Si sta muovendo qualcosa, c’è più consapevolezza?
Faccio un esempio pratico e bello che da speranza. Abbiamo fatto un’iniziativa lo scorso luglio a Tirana. Tra l’altro ci occupavamo della proiezione del film su Franco Basaglia, “C’era una volta la città dei matti”, per l’anniversario della sua morte e della stessa legge 180 che in Italia ha dato una svolta enorme al passaggio sulla disabilità mentale. Ci hanno offerto gratuitamente una sala del Museo Nazionale di Storia Contemporanea.
Non l’avevo visto e quando sono arrivato lì, c’era questa sala enorme, saranno stati 700 posti. Ho pensato che per un evento sulla psichiatria a Tirana, a luglio, una sala così sarebbe rimasta vuota e quindi francamente ho detto agli altri che avevamo sbagliato un po’ tutto. Invece è stato un’enorme sorpresa vedere che la sala si è riempita: era pieno di giovani.
Neanche in Italia succede una cosa del genere. In me probabilmente è prevalso il pregiudizio che l’argomento interessava a pochi, invece ho visto che interessava a tanti. Mi sono detto: “ok qualcosa sta realmente cambiando”, soprattutto perché erano tutti ragazzi e studenti universitari. Quindi persone che, prima o poi si spera, saranno quelli che avranno in qualche modo in mano il paese.
Se hanno già più coscienza in questo senso, penso che nell’opinione pubblica qualcosa si stia movendo. Logicamente poi esistono le diverse realtà albanese, il nord è diverso dal sud, e viceversa. Il centro è un’altra realtà e Tirana è un paese a se stante.
Invece quali sono i progetti in corso in Kosovo?
In Kosovo abbiamo iniziato a lavorare partendo dal campo profughi di Tirana, nel senso che tutti i disabili che erano tenuti nel campo sono stati riaccompagnati in Kosovo e da lì è stata avviata l’esperienza. Abbiamo inizialmente lavorato nella città di Peje con la ricostruzione delle case, del teatro, del municipio, instaurando un forte legame con questa realtà. Successivamente, abbiamo aperto un centro diurno per disabili mentali.
Il Comune di Peje ha avuto anche la sensibilità di seguire il centro e lo finanzia in parte. Abbiamo fatto un’azione importante in quei anni, accogliendo disabili mentali sia albanesi sia serbi. Li abbiamo messo insieme nonostante le enormi difficoltà che si possono immaginare in un contesto con un conflitto appena finito.
Noi avevamo tutti operatori albanesi che non volevano assolutamente lavorare con i disabili mentali serbi, invece nel vedere la persona in difficoltà si è sorpassato anche questo limite. Attualmente il centro sta andando avanti bene. Dall’altra parte, la Cooperazione italiana ha avuto il mandato dal governo kosovaro di elaborare la strategia di intervento sulla disabilità.
Ci sono delle differenze tra la realtà albanese e kosovara nell’ambito della disabilitià?
La differenza maggiore è che il Kosovo ha dei professionisti importanti che hanno studiato e lavorato a Belgrado e quindi inevitabilmente il livello professionale è molto alto. Manca una cosa fondamentale che è lo stato. In Kosovo lo stato ancora non c’è, se non vincolato dalla presenza internazionale. Questo pone un interrogativo abbastanza grosso sul futuro del Kosovo e inevitabilmente sulle azioni nel campo della disabilità.
Un’altra differenze è il fatto che nonostante la presenza di professionisti importanti in Kosovo, in Albania ci si lavora da più anni e di conseguenza sono state fatte delle conquiste in più. In Kosovo è come se avessimo iniziato adesso perché fino al 2005-2006 la presenza dei soldati era talmente invasiva che non si riusciva a lavorare neanche in maniera ampia.
Infatti, è anche vero che lo stesso stato kosovaro con il riconoscimento ha potuto avviare la fase legislativa sulla disabilità. Io personalmente in Albania vedo più futuro rispetto al Kosovo, nel senso che la presenza militare è troppo importante per poter vedere una crescita dello stato quindi una crescita dello stato anche a livello sociale.
Come ha vissuto la quotidianità albanese durante la tua permanenza in Albania?
In Albania sono stato da settembre del 2007 fino a due settime fa, l’ultima volta. Ho visto un paese che è enormemente in movimento sia dal punto di vista architettonico che di vita quotidiana. In tre anni, Tirana si è trasformata, nascono palazzi e grattacieli in continuazione. C’è una crescita del livello di divertimento.
La nascita di tanti night club, di tanti club, secondo me, dimostra anche una voglia di crescita della gente soprattutto dei giovani che cercano comunque un’indipendenza. Poi mi ha sempre colpito il fatto che i locali e la vita notturna di Tirana si svolgesse in quello che una volta era il “bllok” del regime in cui non si poteva entrare.
La critica che posso fare è il fatto che secondo me, si cerca un po’ troppo di imitare quello che è l’Europa occidentale, dimenticandosi di quello che sono le tradizioni e la cultura. Per me, l’Albania ha un po’ abbandonato quello che è il bello della storia, nel senso che si vuole quasi nascondere, si cerca di essere europei per forza. Da un lato questo è inevitabile, nel senso che è un paese che stando in Europa, è stato trattato erroneamente da paese di secondo livello. Però, questo voglia di riscatto rischia di far dimenticare un po’ ai giovani di quello che era la propria storia. Poi, va bene nella quotidianità di Tirana c’è tutto, quindi..
E in quella delle altre zone, tipo Scutari, Elbasan?
A Scutari sono stato poco. Sono stato tantissimo ad Elbasan. Lì è un po’ più complicata perché alle sette è già tutto chiuso. Anche solo per i ritmi del mangiare era complicata. Poi al nord sono arrivato fino a Pukë. Il sud invece è una realtà che si sta trasformando sotto gli occhi di tutti. Ho letto poco giorni fa che sulla guida del Lonely Planet è stato indicato come meta turistica del 2011.
Inevitabilmente perché il posto è bellissimo, ma anche il nord stesso è molto bello. Poi si nota una differenza culturale che a noi europei forse ci sconvolge perché non siamo più abituati a vedere un legame forte con le tradizioni. Secondo me sono valori da mantenere, superando logicamente delle questioni come quella della situazione della donna, piuttosto che della violenza. Però le cose si stanno muovendo velocemente. Quindi, oltre alla perdita delle tradizioni bisogna fare attenzione che le cose non vadano troppo veloci.
Invece che idea ti sei fatto del modo in cui gli albanesi vedono gli italiani?
Ci date più valore di quello che ci diamo da soli. Il mio padrone di casa mi ha fatto molto sorridere perché mi raccontava che sentire Sanremo durante il regime via radio era un evento sovversivo, quando da noi invece è il contrario. C’è una grossa… la chiamerei quasi venerazione per l’Italia. Soprattutto tra gli adulti dai 40 anni in su. Invece, i giovani fortunatamente iniziano ad avere una coscienza critica su questo versante.
Averli trattato male per tutto questo tempo e il fatto che spesso in Italia albanese sia collegato a criminale, li fa arrabbiare. Giustamente. Mi è sempre piaciuto l’aneddoto di una mia amica che lavorava per l’organizzazione mondiale della sanità. Una ragazza molto intelligente che voleva fare un master.
“Non lo posso fare perché non mi hanno mai visto e mi trattano sempre da persona che non vale” mi diceva e poi mi chiedeva “perché tu puoi andare dove ti pare e io non posso farlo?”.
Quindi, se da un lato, si da tanta spinta alla crescita anche da parte delle organizzazione internazionali, poi si blocca sempre la possibilità di fare quello scatto in più che è un po’ il limite dell’Albania. Anche dentro le istituzioni l’aria rimane la stessa, quando trovi un politico che ha voglia di fare di più, te lo lasciano lì per mesi, poi lo tagliano.
Invece la quotidianità kosovara con quella albanese?
In Kosovo non sono stato a lungo. Massimo due settimane e sempre al lavoro. La differenza maggiore che ho visto a livello di percezione è l’ordine. In Kosovo è tutto più strutturato. La stessa Peje è molto organizzata, al contrario dei quartieri di Tirana in cui le case stanno una sopra l’altra. Però il Kosovo lo conosco meno e soprattutto dal punto di vista lavorativo.
Infine, quali sono i prossimi progetti in programma in Albania?
In Albania, stiamo prendendo i contatti per ampliare il progetto che abbiamo in atto con i bambini. Quindi l’idea è quella di fare un’azione anche di formazione del personale sanitaria albanese. Adesso stiamo cercando i contatti con il Ministero della Sanità, la Regione Emilia Romagna e la Regione Puglia per vedere di fare un progetto insieme ed andare avanti.
Intervista rilasciata il 28 novembre 2010 nel corso del Seminario di formazione per giornalisti intitolato “Oltre l’apocalisse. Come non farsi imprigionare dalla paura del nuovo”. Il Seminario arrivato alla XVII edizione, è organizzato annualmente dal Redattore Sociale presso la Comunità di Capodarco.