Nel cuore della città di Scutari, a pochi passi dalla piazza centrale, in una via oggi trafficatissima e affollata, sorge un convento francescano, sede di un doloroso passato.
Una testimonianza ancora viva e visibile del regime comunista che, dal 1944, abolì e condannò tutte le religioni e i culti, assumendo l’ateismo di stato a principio costituzionale.
Il convento, di proprietà dei frati francescani, nel 1946 fu sequestrato e trasformato in carcere della Sicurezza di Stato e, al suo interno, vennero rinchiusi e torturati per anni tutti i rappresentanti religiosi dei diversi culti e tutti coloro che si opponevano all’ateismo imposto dal regime.
Solo da pochi anni il convento, attualmente gestito da sette sorelle clarisse, italiane e albanesi, ha aperto le porte per mostrare i segni dell’antico dolore, per non dimenticare e non far dimenticare le persecuzioni, le torture e le segregazioni di migliaia di innocenti che non accettarono di rinunciare alla propria fede e che, per quella stessa fede, persero la vita.
Tutto, all’interno del ex carcere, è rimasto inalterato come anni fà.
Entrando in quelle celle, piccolissime e buie, si scorgono ancora i segni della prigionia. Scritte sui muri di invocazione a Dio, simboli religiosi scalfiti sulle pareti, forse con chiodi e unghie, a testimonianza di un martirio ingiustificato.
La celle nella parte superiore del convento erano adibite agli interrogatori: veniva posizionato uno sgabello vicino al muro, dove il prigioniero era legato e torturato, spesso fino alla morte. Testimoni della tortura, ancora lì presenti, gli oggetti utilizzati per costringere alla confessione: manette di ferro che stringevano e tagliavano i polsi, pinze biforcute, oggetti che provocavano scosse elettriche.
Quelle che un tempo erano le stanze dei frati vennero trasformate in celle di detenzione, all’interno delle quali venivano rinchiuse decine di persone in uno spazio angusto, tanto stretto da essere obbligati a fare i turni per sedersi o sdraiarsi.
Anche nel cortile esterno, sovrastate da mura altissime, altre celle di detenzione. Alcuni testimoni, sopravvissuti alla prigionia, ricordano che agli angoli delle pareti esterne venivano posizionati autoparlanti che producevano rumori altissimi per coprire le grida dei torturati.
Ma, evidentemente, non fu sufficiente. Per anni gli abitanti di Scutari evitarono di passare da quella strada dove, ad ogni ora del giorno e della notte, era impossibile non sentire le urla strazianti provenienti dall’interno, i lamenti di dolore e le invocazioni ad un Dio che forse li aveva abbandonati.
A distanza di anni, le sorelle clarisse hanno deciso di mostrare al mondo le tracce di un passato che la gente vuole invece dimenticare, forse perchè troppo doloroso e inspiegabile. L’Albania contemporanea è, a giusta ragione, proiettata a guardare ad un futuro di ricostruzione e ripresa ed è troppo difficile, forse anche inutile, volgere lo sguardo indietro per ricordare le fratture che cinquant’anni di regime comunista hanno provocato.
La memoria storica, a volte, è un limite emotivo al progresso.
Altre volte, invece, interrompere il silenzio portando alla luce verità nascoste del passato, può aiutare a non commettere gli stessi errori, ad imparare da sè stessi e dalla storia che ci ha preceduti.
Aprendo le porte del convento, ex prigione di Stato, queste suore hanno voluto gridare al mondo che ogni fase storica ha le sue vittime e i suoi martiri e che, in nome della libertà grazie a loro raggiunta, occorre non dimenticare.Affinchè il futuro sia profondamente diverso dal passato.