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Gianni Belluscio, l’arbëresh che diede vita ai suoni

Gianni Belluscio non poteva assuefarsi alla morte. Perché la vita è amore. Noi, irruenti nella nostra corsa da coniglio, non abbiamo visto la sua sofferenza.

di Majlinda Bregasi
21 Aprile 2020
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Gianni Belluscio

Gianni Belluscio

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‘Abituatevi alla morte dei vostri cari’, diceva Boris Johnson all’inizio della pandemia. Abituatevi alla morte, o mortali!

In questi giorni ci ha lasciato Gianni Belluscio, l’erudito arbëresh amico e collega, mentre la moglie, Giusi, viveva inconsapevolmente i suoi ultimi due giorni e io ancora non realizzo la sua morte, la loro morte. Un nodo pungente mi stringe la gola ogni volta che, in questi giorni, vedo il viso sorridente di Gianni sugli schermi dei media italiani e albanesi, sui siti web universitari, nei post di molti amici.

Dietro quel suo sorriso spontaneo non avevo mai visto così tanto dolore, il vuoto spaventoso che lascia la perdita della donna amata, il greve silenzio che avvolge la casa che ora ha perso il significato di rifugio sicuro.

Niente ti protegge più. Questa non è una tragedia greca, questa è la tragedia dell’uomo moderno, questa è la tragedia dell’accademico che ama sommessamente fino alla morte, senza il clamore di parole e foto diffuse sui social media. Questa è la tragedia della famiglia Belluscio, dei suoi figli, dei suoi amici, quella della nostra società insta, questo moderno Minotauro che si nutre di immagini scintillanti.

La morte è brutta. Non ne esiste una bella. Nemmeno quando viene dall’amore. La morte è dolore. La vita è bella, in tutte le sue forme più insolite. Non c’è vita brutta. Non c’è vita ordinaria. La vita è unica. La vita è sorriso. La vita è amore. La vita è l’alfa e l’omega dell’umanità e tutto il resto dovrebbe esistere in funzione di essa.

Come renderla ancora più bella, ancora più semplice, ancora più brillante? Come non renderla un bellissimo fast food solo per un insta.

Ora che la maggior parte di noi ha il “lusso” di essere rinchiuso in casa, mentre altri milioni sono costretti a lavorare o, peggio, hanno perso il lavoro di fronte a disumane disgrazie, sorprendentemente troviamo la forza di lamentarci. L’uomo per natura è sempre insoddisfatto. Questo è il motore dell’energia che lo spinge ad andare avanti, a cercare il meglio. Ma cosa c’è di meglio della vita in tempo di guerra?

Questa pandemia, probabilmente, era ciò di cui l’umanità aveva bisogno per fermare la sua corsa vertiginosa, per rendersi conto che la natura ha bisogno del coniglio che corre quanto della lentissima tartaruga. E per imparare che il coniglio, nella sua corsa, perde di vista molte cose, mentre la tartaruga gode di tutti i colori, della varietà delle erbe, dei profumi, ha tempo di pensare, di vivere, ha sviluppato un sistema di difesa molto intelligente e la favola ci dice che sa perfino vincere.

Le favole sono pregnanti messaggi di saggezza inviati a noi dai nostri vecchi. Chiedete ai bambini di raccontarvene altre; sicuramente le avrete dimenticate nella vostra maratona quotidiana dove nessuno vince mai.

Chiedete ai bambini cosa guardano in televisione, quali giochi fanno, quali libri amano leggere, quali disegni o esperimenti fanno.

Chiedetegli di imparare la loro lingua, quale lingua “quarantenese” parlano. Non lasciatevi ingannare dal loro entusiasmo, i bambini nascondono molte cose.

Spesso non riescono ad usare le nostre parole per esprimere le loro paure. Hanno le loro, così tenere. Imparatele. I bambini sono insegnanti eccellenti che spiegano le cose difficili molto semplicemente. Cercando di aiutare loro a capire cosa significa quarantena, vedrete che aiuterete anche voi stessi.

Temo che molti di voi avranno smesso di leggere. Non sto parlando di politica. Non sto maledicendo né supportando nessuno come si fa di solito. Non è una tesi a favore di qualche partito politico che catturerà la voglia di diffondere tra i suoi militanti. Non è vendibile. Lo so. Questo è esattamente il motivo per cui sto scrivendo.

Oggi rifiuto il tipo di politica che piace alla gente. Una politica dai toni di esclusione, da linciaggio, una politica che crea paura, nemici astratti soprattutto in tempi di insicurezza come oggi, una politica che utilizza i mass-media per creare e manipolare le menti, una politica che compra giornalisti e opinionisti, una politica che sfrutta incredibilmente le disgrazie del suo elettorato non può coesistere nello stesso articolo in cui appare il nome di Gianni Belluscio.

Gianni adorava il suo lavoro senza mai aspettare niente in cambio. Era un ricercatore appassionato, inarrestabile, invincibile. Leggeva con piacere ogni nuovo romanzo pubblicato in albanese, mi scriveva spesso su giovani autori in Kosovo con la gioia di un bambino che non vede l’ora di leggere.

Andava con il suo microfono in tutte le zone, non importa quanto lontane, dove si parlava albanese: nei Balcani, in Italia o altrove, registrava tutte le sfumature dei suoni più vari, più rari, le forme più strane per elevarle ad un livello accademico così alto che non sarebbero state mai più dimenticate.

Gianni era come un bambino che dava anima ai suoni, riportava in vita le parole dimenticate negli archivi tenebrosi, le conduceva con cura fuori dalle loro profondità, dava loro le ali, “Volate!”, “Vivete!”.

Gianni Belluscio non poteva assuefarsi alla morte. Perché la vita è amore. Noi, irruenti nella nostra corsa da coniglio, non abbiamo visto la sua sofferenza.

Traduzione integrale dell’articolo originale in lingua albanese dal titolo “Njeriu që u jepte shpirt tingujve” su Koha.net

 

Fonte: Koha.net
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