La chiamavano così, per la forma delle foglie ma non fece mai una vita da aquila. Viveva all’interno di un austero ufficio, e veniva alimentata a seconda dei gusti e delle fantasie degli impiegati: fondi di caffè, briciole di pane e persino qualche compressa di aspirina.
Spesso trasudava qualche goccia d’acqua. “Guarda come piange poverina. Forse le abbiamo fatto male”, diceva con ironia l’impiegata che indossava una gonna corta, ma non tanto quanto avrebbe voluto.
Fu testimone di imbarazzanti dichiarazioni d’amore, di qualche bisbiglio di carattere politico, di invidie ma anche di qualche amicizia. Aveva sentito anche racconti su un paese non molto lontano, aldilà del mare che lei ovviamente non aveva mai visto. Si diceva che là le piante crescessero libere e in salute.
Erano giorni che nessuno si prendeva più cura di lei. Persino la finestra era rimasta aperta. Dalla vicina piazza volavano parole. Si allungò fuori dalla finestra per vedere ciò che succedeva ma non vide nessuno.
Si sentivano invece gli stessi schiamazzi ma più chiari: politica, studenti, soldi, fine, comunismo, libertà. Si liberò con cura dalle radici imprigionate in quella terra secca e partì. Evitò la piazza per non dare nell’occhio. Meglio non rischiare; anche perché la parola “libertà” l’aveva sentita per tutta la vita senza mai raggiungerla.
Si mise in cammino verso “laddove tramonta il sole” come dicevano gli impiegati. Ecco il mare! Si intrufolò dentro dimenticandosi delle piaghe che si era procurata staccando le radici. Il dolore raggiunse l’anima, come si usava dire; ed era solo il primo. Ma l’ebbrezza del viaggio le fece dimenticare tutto in fretta. Altre piante l’accompagnarono in quel viaggio condividendo il loro destino e le loro storie.
La rinchiusero subito al suo arrivo sebbene in uno spazio più largo. Altre briciole di pane cadevano sulla sua testa accompagnate dal frastuono di un apparecchio che volava lassù. Ma anche qualche schizzo di late. Tutto in attesa del verdetto che sarebbe arrivato in tempi brevi.
“Danneggia la nostra flora – fu il parere dell’esperto, chiamato per l’occasione- va rimandata nel suo habitat”. Ma lei non poteva arrendersi. Sarebbe tornata comunque perché sapeva che ci doveva essere qualcos’altro fuori da quello spazio dove era stata rinchiusa.
Ad ogni tentativo perdeva una foglia. Sulle prime, le più fragili, era scritta il funerale di un personaggio importante o le promesse e i proclami di un altro. Poi fu la volta delle foglie grandi: una poesia nata in prigione,i canti del paese, la casa lassù in collina, il gelido vento del Nord sotto il cielo stellato.
Infine il suo corpo martoriato venne lasciato in pace; forse ebbero un po’ di pietà.
Spesso si avvicinava alle altre piante per scambiare qualche parola. Ma loro piegavano le foglie verso l’interno come scudi per non lasciare penetrare neanche il più dolce sussurro.
Ogni rifiuto veniva segnato sul suo corpo con un marchio a forma di anello, come la conta dei soldati che dovevano tornare a casa dopo un lungo servizio. I segni delle battaglie perse. Là si fermava a riflettere, ripetendo la solita frase: “qualcosa avrò sbagliato“.
E sopra ogni anello, di tanto in tanto, spuntava qualche germoglio che cresceva e diventava foglia. Ma non era uguale alle altre rimaste. A lei non sembravano diverse ma quando tornava tra i suoi simili facevano fatica a riconoscerla. Ma anche loro si erano trasformate: avevano foglie più grasse e deformi.
Forse furono le foglie nuove a dovere incuriosire le piante vicine: “Sembra così diversa eppure ci somiglia tanto”. E le chiesero di raccontare. Lei non raccontò mai nulla di sé ma solo storie che loro avrebbero capito.
Visse inverni lunghi e nebbiosi. Forse uno fu più duro degli altri e si dice che fosse anche più lungo.
Si coprì con le proprie foglie per passare anche quello. Ma poi ci fu il risveglio con la voglia di correre verso est a vedere quei raggi di sole che aveva sognato durante il sonno-letargo. Non riuscì a muoversi perché al primo tentativo, sentì dei fitti dolori alla pancia.
Diede uno sguardo verso laddove arrivavano i dolori e vide dei fili bianchi, quasi trasparenti che uscivano dal suo grembo e si disperdevano nel terreno dove si era appoggiata: aveva messo radici. Le guardò con lo stesso sentimento di una madre che guarda un figlio, frutto di un amore tradito. Ma non ebbe il coraggio… E pianse come allora.
Si dice che per lei gli inverni diventavano sempre più lunghi e il sonno più profondo. Qualcuno racconta che riescono a svegliarla solo le carezze del vento dell’est. Allora le sue foglie cominciano a ballare una antica danza che era riuscita a conservare nel suo cuore affinché non si perdesse con le foglie. Veniva chiamata “la danza delle aquile”.
Questo racconto è stato originariamente pubblicato su Albania News il 4 ottobre 2010. Il racconto è disponibile anche in lingua inglese.