Il sentiero era immerso nel verde. Qualche raggio di sole si faceva spazio a fatica tra le foglie delle querce, creando dei piccoli cerchi sulla terra battuta nel passaggio di uomini e bestie.
Una coppia di farfalle si scaraventò a terra mentre giocava all’inseguimento, per poi rialzarsi e riprendere il volo. La vite che abbracciava il frassino inseguendone la cima era pesante di grappoli che cercavano di maturare sotto il canto delle cicale. C’era già qualche chicco nero ma non si sentiva ancora il profumo.
All’improvviso, dove il sentiero si spogliava degli alberi per lasciare posto a un piccolo campo giallastro di segale mietuto circa un mese prima, comparve una donna. Gli parve strano vederla da sola in un simile posto, con i vestiti bianchi e rossi e il velo rosso trapuntato di fiorellini bianchi, da sposa. Agitò le mani nel tentativo di spostare i raggi di luce che gli impedivano di vedere bene. Qualcosa gli diceva che quella era la sua promessa sposa, sebbene non l’avesse mai vista. Lei, incurante del suo sguardo , attraversò il sentiero e si diresse verso il vecchio olmo che si trovava proprio in mezzo al campo. Gjergj si preoccupò perché proprio lì, pochi giorni fa, aveva visto un nido di calabroni che si era ripromesso di bruciare alla prima occasione. Cercò di lanciare un urlo per avvertirla, ma la voce non gli uscì. Decise di raggiungerla e fermarla. Un ramo secco gli si spezzò sotto i piedi, e qualcuno lo chiamò…
Si svegliò con la stessa preoccupazione. La stanza era invasa di luce, ma lui non aveva voglia di alzarsi. Chiuse gli occhi lentamente, in modo da poter riprendere il sogno lasciato a metà. Invano. Si alzò, si vestì velocemente e scese in cortile. I cuochi fatti venire in paese per preparare il pranzo nuziale erano già all’opera. Le donne cantavano lavando i pentoloni, e il responsabile del servizio di cucina contava gli utensili che avevano raccolto nelle case dei vicini, contrassegnandoli per riconoscerli al momento di restituirli. Il bue del matrimonio ruminava in silenzio. Forse aveva capito il proprio futuro, giacché era la prima volta che gli veniva permesso di mangiare quanto voleva, legato accanto al pagliaio. Era tranquillo come se avesse accettato la propria sorte.
“Ma guarda te chi si è svegliato. Lo sposo! -, disse uno dei cuochi. “Dai, Gjergj, vieni a prendere il caffè con noi. Non fare quella faccia triste, capita a tutti prima o poi di non svegliarsi da soli nel letto: spero non ti dispiaccia!”, concluse ridendo. Gjergj abbozzò un sorriso forzato e si diresse verso il pozzo da cui una donna aveva già provveduto a estrarre l’acqua con un secchio ammaccato dagli urti contro le pareti. Gliela versò a poco a poco perché si lavasse il viso, tenendo sull’ avambraccio un asciugamano nuovo che qualcuno aveva portato in regalo. Quel giorno di sabato sembrò tanto corto, tra gli invitati che arrivavano con regali, le risate e le canzoni. Dopo cena il padrone di casa riunì i delegati chiamandoli a voce alta uno per uno, indicando il posto dove dovevano dormire e consigliando loro di presentarsi all’alba per la partenza verso la casa della sposa.
***
Alla mattina presto i delegati si riunirono nella stanza degli ospiti. Mentre gli altri prendevano il caffè, il padrone di casa prese da parte il primo delegato per le ultime raccomandazioni. “Non abbiamo nessun conto in sospeso con il padre della sposa”, gli disse, “tutti i debiti sono stati pagati, perciò non dovreste avere problemi”. I delegati uscirono. Le armi lucidate per l’occasione brillavano sotto i primi raggi di sole, così come la criniera del cavallo bianco della sposa che qualcuno aveva strigliato di buon mattino. Si svegliarono quasi tutti. Gli uomini si misero in fila per salutarli stringendo loro le mani, mentre le donne formarono un piccolo gruppo intonando un canto:
“Tu, primo delegato, buon viaggio farai, e la sposa al più presto ci porterai.
Buon viaggio a te, secondo delegato, e sulla via del ritorno, portaci la sposa entro mezzogiorno.
Terzo delegato, buon viaggio ti auguriamo, e la sposa alta quanto te vogliamo.
Buon viaggio alla schiera tutta, e non portateci la sposa brutta”.
Ciascuno di loro sparò un colpo al momento di uscire dal cortile. Nel lasciare il villaggio incontrarono un altro gruppo di delegati che arrivavano a prendere la sposa nel loro paese. Dovevano giungere da lontano, visto che avevano scelto di arrivare così presto; loro si dovettero spostare per fare strada ai delegati forestieri, così come voleva la consuetudine.
L’inviato del padre della sposa li attendeva al luogo prestabilito, e dopo i saluti s’incamminarono verso casa. Il montone che portavano in regalo si fermò vicino al canale per bere; lo aspettarono pazienti. Non tennero conto dell’atmosfera inquietante che trovarono in casa della sposa. Era normale, quel giorno era di festa solo per la casa dello sposo “perché la sposa nasce nella casa altrui e va a casa sua”. Nella camera degli ospiti si scambiarono saluti e tabacco. Poco dopo giunse un uomo con la bottiglia di rakì, seguito da un altro che teneva in mano una larga teglia piena di frittelle con al centro un ciotola di miele. Il padrone di casa innalzò il bicchiere e mormorò con voce tremante: “Sia lodato Gesù Cristo…”. “Ora e per sempre” – risposero i delegati -, “che possiate sentire solo parole buone su vostra figlia”.
Da fuori arrivarono delle voci che sembravano urla disperate: “Non prenderanno mai nostra sorella in questo stato”, gridava qualcuno, mentre un altro cercava di farlo ragionare invitandolo ad abbassare i toni. Il padre della sposa chiese scusa agli ospiti e uscì. Il primo delegato approfittò della sua assenza per sussurrare nell’orecchio del secondo: “Il padre dello sposo ci aveva assicurato che non ci sarebbero state difficoltà, ma a quanto pare non è così”. Assieme al padre rientrò nella stanza anche il fratello maggiore, che cominciò subito a chiarire la situazione: “Mia sorella, la vostra sposa, è molto malata. Non potete portarla con voi oggi perché rischia di morire per strada”. Il primo delegato divenne pallido e la fronte gli si corrugò di solchi, come se fosse appena passato l’aratro. “Noi da qui non ce ne andiamo senza la sposa. Se così non dovesse essere, questa vicenda si chiuderà nel sangue” – disse con voce ferma, guardando le armi appese al muro. “Voi siete di buona famiglia e dovreste conoscere bene le consuetudini”, aggiunse, fissando negli occhi il padrone di casa. Lui abbassò lo sguardo per un attimo e poi si riprese, citando quasi per intero quel passo del Kanun: “I delegati portano via la sposa anche se quest’ultima fosse sul letto di morte, e se necessario anche trascinandola via. Perciò preparatela”, ordinò guardando verso la porta, fuori dalla quale si dovevano trovare le donne che aspettavano la decisione. “Ma non ha nemmeno la voce per piangere”, gemette la madre, che aveva aspettato accanto alla porta con un filo di speranza. “Taci tu, donna , non hai sentito quello che ho detto?”, rispose il padrone di casa con voce alterata.
“E se dovesse morire, dove andrà?”, insistette il fratello. La domanda colse di sorpresa i delegati. Il primo di loro si consultò con gli altri e col padrone di casa. Concordarono che se la sposa fosse morta prima di arrivare al Passo Maledetto il corpo sarebbe stato restituito alla famiglia di lei, altrimenti toccava alla famiglia dello sposo. Rimasero ancora un po’ in silenzio fino a quando arrivò la comunicazione che tutto era pronto. Chiesero il permesso al padrone di casa e uscirono nel cortile, tra gli sguardi collerici dei parenti. Si avvicinarono al recinto in attesa della sposa. Lei uscì, accompagnata da una donna della famiglia e dal fratello, sulle cui braccia si era piegata. Le altre donne che la circondavano piangevano a voce alta per coprire il suo silenzio. Il fratello la abbracciò, la consegnò ai delegati, e scomparve nella vigna con le mani fra i capelli. I delegati issarono la sposa sul cavallo e partirono, evitando di sparare per non appesantire l’atmosfera già tragica. Il sole coceva, e la zia della sposa, che era partita assieme alla comitiva nuziale, le si avvicinava con un fazzoletto in mano per asciugarle il sudore. “Come stai, Marta?”, le sussurrava, stringendole la mano ghiacciata. “Sto morendo, non si può togliere questo velo? Non riesco più a respirare”.
“Qui non si può perché c’è gente che passa, ma il primo delegato mi ha assicurato che ci fermeremo alla Sorgente Buona”. “Sono sicura di non arrivarci. Lo senti il canto dell’uccello maledetto? Predice la mia sorte”, disse, accennando ad alzare il braccio per indicare la foresta da dove provenivano i versi del cuculo. Superarono il Passo Maledetto e cominciarono a scendere lungo la strada ripida. Due dei delegati tenevano la sposa per le braccia, mentre un terzo cercava di tenerle la testa ferma perché non riusciva più a controllarla. Il paese non era tanto lontano e si sentivano i canti che arrivavano dalla casa dello sposo. Si fermarono alla Sorgente Buona e vi trascinarono accanto la sposa sdraiandola con la testa sul grembo della zia. Lei prese con le mani un po’ di acqua e gliela fece scorrere sulla fronte. Evaporò all’istante, come a contatto col carbone acceso. I lineamenti del viso di Marta si distesero, il suo corpo vibrò, perduto in un piacere mortale, e aprì per un attimo gli occhi neri. I raggi di sole si piegarono nella pupilla e si sciolsero nell’ultima lacrima, che scivolò velocemente ma non riuscì a raggiungere il mento. Richiuse gli occhi. “Piccola mia, se n’è andata”, sussurrò la zia ai delegati che assistevano atterriti, mentre si strappava i capelli, chiudendosi nel suo strazio.
***
L’insolito corteo giunse nei pressi del cortile. Le donne smisero il canto non appena videro la sposa riversa a pancia in giù in sella al cavallo, e le mani penzolanti che quasi toccavano terra. ” E’ ora di cominciare il pianto”, disse il primo delegato, facendo impietrire la danzatrice che divenne una statua con in mano la cesta di caramelle, riso e noci che dovevano essere gettati in tutta allegria sulla sposa e i delegati. Poi proseguì verso il padrone di casa, gli strinse la mano e disse poche parole: “Che Dio ti dia forza. L’abbiamo portata a casa”.
***
Gjergj si svegliò presto. Doveva partecipare al funerale di un anziano amico di famiglia. Andava al posto di suo padre, il quale era sceso un giorno prima al mercato del bestiame per vendere una mucca e due capre. Il matrimonio – funerale era stato molto costoso. Slegò il mulo, lo prese per la cavezza e si avviò a piedi, perché aveva voglia di camminare. Era pieno di pensieri. Il giorno prima, aveva incontrato un amico di infanzia che cercava di nascondere un po’ di imbarazzo. “Ti si legge in faccia che hai qualcosa da dirmi”, lo aveva incoraggiato. L’altro aveva esitato per pochi attimi, poi aveva cominciato a raccontare: “Si dice in paese che qualcuno ha visto Marta vicino alla chiesa dove è stata sepolta, con vestiti normali, da donna sposata. Altri giurano di averla vista vicino alla sorgente vestita da sposa. Dicono che è per colpa di quel dissidio tra la vostra famiglia e quella della sposa, su quali vestiti usare per la sepoltura. Né di qua, né di là, come in questa vita”, concluse l’amico abbassando gli occhi. Gjergj non aveva saputo cosa replicare, ma aveva deciso di andare dal parroco, per chiedergli se tutto ciò era possibile. Lo avrebbe fatto al ritorno dal funerale. Gli vennero in mente i calabroni, ma non sapeva se li avesse visti veramente.
Salì sul mulo e non scese più fino alla sorgente. Una goccia di sudore gli scivolò nell’occhio mentre scendeva. Legò il mulo a una giovane pianta di acero e, nella fretta che aveva di lavare l’occhio che gli bruciava, passò vicino a un ginepro le cui foglie aguzze gli graffiarono la caviglia. Accostò le mani a coppa per prendere l’acqua, e nel farlo gli parve di sentire la risata allegra di una ragazza e di vedere con la coda dell’occhio una giovane donna vestita di rosso. Si gettò in fretta l’acqua sul viso, voltandosi di scatto. Non c’era nessuno, a parte il mulo che ogni tanto faceva fremere la pelle per scacciare le mosche. “Saranno stati il gorgoglio dell’acqua e i raggi di sole”, pensò, mentre slegava il mulo. Inveì contro di lui, biasimandolo: “Sei proprio un cretino, con tutta l’erba che c’è qui intorno ti metti a fare tanta fatica per brucare le cime di ginepro.”
A cura di Olimpia Gargano