Mi piaceva camminare sotto gli alberi, specialmente in autunno quando le foglie iniziavano a perdere il loro bel colore verde diventando giallognole. Oppure quando si staccavano dai rami e, a poco a poco, spogliavano l’albero privandolo della loro bellezza.
Oggi però, non riesco a comprendere se mi piaceva di più il fatto che l’albero con le sue foglie riusciva a respirare meglio, o il fatto che, con la sua nudità, si spogliava della sua timidezza.
Non è che ce l’avessi con le foglie, anzi, cercavo sempre mentre camminavo, di stare attenta a non calpestarle.
Quando mi rendevo conto di essere da sola a camminare in quella stradina stretta che portava alla mia scuola, parlavo addirittura insieme a loro.
Chiamavo la pioggia che desse loro da bere un po’ della sua acqua e quando il mio desiderio veniva esaudito, camminavo ancora più lentamente, senza preoccuparmi di aprire l’ombrello per ripararmi dalle grandi gocce d’acqua.
Mia nonna insisteva sempre che portassi con me l’ombrello, invece io lo allontanavo da me, perché volevo assaporare quell’acqua autunnale, aprivo le mani verso il cielo e sollevavo la testa verso l’alto. Non mi importava che i mie amici mi potessero vedere in quelle condizioni, bagnata fradicia.
E poi, quasi tutti correvano via per ripararsi dalla pioggia e non potevano certo accorgersi di me … ero come invisibile ai loro occhi.
Solo mia nonna se ne accorgeva quando vedeva i miei abiti inzuppati d’acqua.
“Greta, cosa hai combinato? Questa mattina ti ho dato l’ombrello … dove l’hai lasciato? L’hai dimenticato a scuola? Ti prenderai una polmonite!” – sbraitava arrabbiata la nonna.
“Uh, nonna, è vero, ho dimenticato di aprirlo, ce l’ho dentro lo zaino”. La prima scusa che mi veniva in mente era quella.
“Ma guarda come sei distratta! I tuoi amici non hanno neppure un ombrello e tu invece ce l’hai e non lo apri nemmeno … anzi, ti dimentichi di aprirlo. Ma poi, come si fa a non ricordare di avere l’ombrello quando piove? Questo proprio non l’ho ancora capito” – continuava la nonna sempre più arrabbiata.
Poi mi copriva subito con la coperta di lana e mi portava vicino alla stufa a legna.
Ah, che bello sentire il profumo della legna bagnata dentro la stufa! Adoravo quel profumo!
La stufa era abbastanza vicina al muro, leggermente discostata e dietro la stufa c’era lo spazio per il divano. Quello era il mio posto e anche quello di Mina, la mia gatta. Papà me l’aveva regalata quando era ancora piccolina.
Papà faceva l’autista e ogni tanto si fermava a mangiare in un ristorante che si chiamava “Vetsherbim” che significa “serviti da solo”. Cioè ordinavi il risotto, la carne o quello che più ti piaceva, poi pagavi il conto e ti mettevi seduto a mangiare. Al tavolo ti portavi il tutto da solo. Questo era un tipo di ristorante per le persone che erano costrette, per lavoro, a rimanere fuori casa e non si potevano permettere di pagare prezzi molto alti.
Mina era l’accompagnatrice di mio padre, nessuno la lasciava avvicinare al tavolo, la scacciavano con urla e calci e non sprecavano neanche una briciola per lei. In fondo il loro comportamento era da comprendere, perché non bastava neanche per loro quel che avevano nel piatto, era sempre talmente poco. Ma mio padre quel poco lo faceva sembrare tanto. Divideva il boccone con Mina e le lasciava ancora qualcosa sul fondo del piatto e lei, con golosità, leccava via tutto. La lavapiatti poteva anche non lavarlo talmente era stato pulito dalla veloce lingua di Mina: si risparmiava il lavoro. Finché un giorno mio padre non trovò più Mina ad aspettarlo al suo tavolo, ma la trovò raggomitolata sopra il cofano del suo Ziz, il camioncino a muso lungo che guidava mio padre. Così Mina arrivò a casa nostra. Era bianca e nera, con un neo nero vicino al suo adorabile nasino, ma era magrissima. In fondo nessuno faceva caso ai gatti, loro cercavano da mangiare solo nei cassonetti dell’immondizia proprio perché dovevano essere affamati per cacciare i topi…
Come dicevo, il divano dietro la stufa era mio e di Mina.
Lei appoggiava la testa sopra al mio petto e russava … e io intanto meditavo.
Meditavo sulla pioggia e sugli alberi, ma soprattutto sul loro legame profondo,
sulla necessità che l’albero aveva di sentirsi accarezzato dalle gocce d’acqua.
E poi ancora sulle foglie sopra il terreno, bagnate, con i colori dell’autunno, sprofondate nel fango, silenziose e tristi, abbandonate alla loro solitudine e rassegnate ad essere schiacciate dai passanti distratti e frettolosi.