Intervento al convegno “Itinerario albanese: dall’emigrazione in Italia all’integrazione europea” organizzato dall’Associazione culturale italo-albanese Occhio Blu – Anna Cenerini Bova e dall’Agenzia Internazionale di Negoziato e Mediazione EPOS, in collaborazione con l’Ambasciata della Repubblica d’Albania in Italia e il Centro Studi e Ricerche IDOS, con il sostegno della Fondazione Migra il 29 Gennaio scorso a Roma
Ho scelto di iniziare ponendo particolare attenzione alla migrazione circolare poiché spesso sono quelle situazioni che trovano la migliore soluzione lavorativa e di integrazione. La migrazione circolare è quella che diversamente possiamo chiamare “il movimento fluido delle persone tra i Paesi che può essere utile a tutti i soggetti coinvolti se avviene volontariamente e se legato alle esigenze del mercato del lavoro dei Paesi di origine e destinazione”.
Quindi lo scopo della migrazione circolare viene identificato con l’utilità nei confronti di tutti i soggetti coinvolti: essa deve perciò essere non soltanto volontaria, ma deve anche essere “legata alle esigenze del mercato del lavoro dei Paesi di origine e destinazione”. Si tratta, in buona sostanza, di quella che nella letteratura viene definita come una “il triplo vantaggio”, alla realizzazione della quale tutti e tre gli attori coinvolti hanno un interesse specifico. Mentre infatti il Paese di origine del migrante circolare riceverebbe al ritorno un proprio cittadino in possesso di migliori qualificazioni professionali, il Paese ricevente risolverebbe il proprio problema di scarsità di manodopera. D’altra parte, il “migrante circolare” beneficerebbe di una porta aperta per un eventuale ritorno nel Paese che lo ha accolto.
Il concetto di migrazioni circolari è ancora abbastanza recente e scarsamente teorizzato in Italia, anche se nella prassi già esistono diversi esempi ad esso riconducibili, che vedono protagonisti soggetti portatori di differenti interessi (studenti, ricercatori, lavoratori stagionali, professionisti, lavoratori autonomi, etc.).
A partire dai primi anni 2000 la Commissione Europea ha iniziato ad interessarsi della questione, producendo una serie di documenti in cui vengono messi in relazione fra loro i concetti di migrazione temporanea e circolare, fuga dei cervelli, migrazione e sviluppo. L’idea manca ancora di una legislazione precisa, ma è abbastanza chiaro l’intento di rispondere ad un bisogno di flessibilità della manodopera da parte degli Stati membri, pressati dall’accresciuta concorrenza a livello mondiale e dalla crescente delocalizzazione dei processi produttivi. L’attenzione posta su tale tema ha comportato un rovesciamento di prospettive nell’impostazione tradizionale delle politiche migratorie.
Si è infatti assistito al passaggio dalla politica del “root causes approach” ad un nuovo approccio che vede la migrazione come un possibile volano per lo sviluppo. In particolare si punta sempre più su quelle politiche che vanno nella direzione di incoraggiare la migrazione circolare che sembra apportare benefici sia agli stati di destinazione che agli stati di origine dei flussi migratori.
Insomma, in un mondo globalizzato con la piena libertà di circolazione delle merci, si fa avanti anche la grande necessità della libera circolazione delle genti. Ma la migrazione circolare, per potersi definire tale, deve presentare almeno tre caratteristiche:
- La libertà di movimento fra il Paese di origine e il Paese di destinazione deve
essere garantita durante il periodo di migrazione - legalità
- rispetto dei diritti del migrante
Ma nonostante il concetto di migrazione circolare non solo è piuttosto recente a livello europeo, ma nel contesto nazionale italiano appare ancora poco approfondito, possiamo affermare che nel caso albanese inizia da qualche anno a prendere forma costituendo quella che Bauman avrebbe chiamato “Società Liquida”.
Infatti, tenendo presente i dati fornitoci dal Rapporto Peer Review dell’OSCE-DAC sulla Cooperazione allo sviluppo dell’Italia, l’Italia rappresenta il principale partner commerciale in Albania dove si contano più di 400 aziende italiane registrate.
Inoltre il 31% delle importazioni albanesi provengono dall’Italia e il 51% delle sue esportazioni sono dirette in Italia. Gli investitori italiani forniscono una elevata percentuale dei finanziamenti nel settore manifatturiero, nell’edilizia e nel settore energetico importando spesso in Albania la tecnologia italiana. Questa partnership strategica e questi solidi rapporti in materia di cooperazione economica, hanno incoraggiato molto la migrazione circolare.
Le cause per cui questa nostra nuova migrazione, con queste nuove forme di doppia presenza, avviene con sempre più seguito, non sono da cercare solo in questa buona partnership tra i due paesi o negli effetti della crisi economica italiana, europea, ma anche nella stabilità e nella sicurezza che offrono i documenti di soggiorno.
In altre parole, dopo quasi 30 anni di immigrazione in Italia sostenendo una delle migliori integrazioni nella comunità autoctona, la maggior parte della comunità albanese risulta in possesso di documenti di soggiorno di lunga durata e sono in moltissimi anche coloro in possesso della cittadinanza italiana. Solo nel 2015, secondo il Rapporto Annuale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, i cittadini albanesi che hanno acquisito la cittadinanza italiana sono stati circa 36 mila.
Questa regolarizzazione e naturalizzazione, ovviamente avvenuta tramite un lavoro continuo e una residenza ininterrotta nel rispetto delle regole, ha garantito alla nostra comunità la libertà di movimento tra i due paesi senza perdere il diritto di ritorno. Ma un ruolo di non poco conto ha giocato in questo senso anche la vicinanza geografica e quella culturale che da sempre lega i nostri due Paesi.
A dimostrare questo fenomeno in crescita, sostenuto e incoraggiato sempre più da ambedue i nostri Paesi, sono anche le migliaia di italiani trasferiti in Albania. Trattasi di imprenditori, studenti, professionisti, pensionati, ecc, che non hanno interrotto i rapporti con il Paese d’origine. Appunto sono quelli che possiamo chiamare migranti circolari poiché sono quelle persone che mantengono relazioni con entrambe le realtà facendosi promotori di uno scambio, di una conoscenza reciproca, diventando così anche ambasciatori dello sviluppo promuovendo diversi valori e settori. Promuovendo, appunto, quello che diversamente chiamiamo effetto volano.
Anche la buona conoscenza della lingua e della cultura italiana è stata, è, fattore importante nel rafforzare queste relazioni e legami economici e politici, contribuendo ad accorciare le distanze e ad abbattere le barriere che separano i cittadini dei nostri due Paesi. E a proposito di distanza e barriere, un ruolo molto significativo in questo senso lo hanno avuto le tantissime realtà associative albanesi le quali hanno favorito sia l’integrazione della propria comunità all’interno della società ospitante, sia la salvaguardia dell’identità culturale mantenendo i rapporti con il proprio paese e vivificandone la cultura e la lingua perché divenga patrimonio trasmissibile alle seconde generazioni.
Sempre secondo il Rapporto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, pare che in Italia ci sono circa 100 Associazioni albanesi attive. E sebbene non manchino tra queste associazioni quelle realtà che hanno una certa strutturazione, che operano da diverso tempo e hanno una propria sede, tuttavia il più delle volte si tratta di piccole realtà quasi informali. Ma queste carenze strutturali non sono una buona ragione per avere uno scarso apprezzamento del loro ruolo, poiché l’associazionismo dei migranti albanesi conserva in ogni caso una considerevole importanza rappresentativa ed efficacia operativa.
Basate per lo più sul lavoro di volontariato e sulle risorse personali, un pianeta che ancora stenta a ottenere sostegno e pieno riconoscimento pubblico, queste forme di auto-organizzazione di immigrati albanesi sono come cinghie di trasmissione fondamentali tra le persone, le istituzioni e la società d’accoglienza.
Tra le mille difficoltà il loro lavoro è stato in tutti questi anni e ancora continua ad essere, un lavoro straordinario che giorno dopo giorno, pietra dopo pietra, costruisce quei ponti tanto ambiti tra noi albanesi stessi in primis, tra la nostra comunità e gli autoctoni e tra l’Italia e l’Albania. Un lavoro in evidente miglioramento che va anche a sfatare quel pregiudizio che ci vede come una comunità poco unita e poco collaborativa.
E lo va a sfatare con i dati, i numeri, i risultati, non con delle semplici parole. Infatti, tenendo presente che la nostra comunità presente in Italia risulta essere di circa 450 mila individui e tra questi, evidentemente, non sono poche le realtà associative, significa che il desiderio di unità e di collaborazione, di aiuto e integrazione, è molto grande. E parlo di integrazione, non di assimilazione, non a caso, ma proprio perché tali organizzazioni tramite le scuole di lingua albanese, tramite le attività culturali e anche tramite l’intrattenimento, incoraggiano la propria comunità a inserirsi nella società italiana senza perdere la propria identità.
Ergo un lavoro che non giova solo all’Italia la quale si vede ricompensata della sua ospitalità, ma che giova moltissimo anche al nostro Paese d’origine, l’Albania, la quale può contare non solo sui nostri aiuti economici tramite le rimesse, ma anche su una buona promozione della sua cultura, della sua storia, della sua bellezza, delle sue energie e delle sue opportunità in quanto un paese sicuro, un paese in crescita, un Paese sulla strada verso l’Europa, un paese che vanta come suoi ambasciatori una grande diaspora che ama le sue origini.
Motivi validissimi per cui queste realtà associative, piccole o grandi, andrebbero sostenute di più per un miglior sviluppo di servizi e assistenza agli emigrati attraverso: la diffusione di informazioni su norme e opportunità in materia di lavoro e regolarizzazione; e tramite la promozione di iniziative che favoriscano un senso di appartenenza più consapevole.
Aiutando i singoli, aiutiamo le famiglie, aiutiamo la società, aiutiamo i Paesi.
Per creare i nostri ponti, fermi o mobili essi siano, dobbiamo farlo insieme nel rispetto reciproco dei diritti e dei doveri, delle leggi, delle culture, delle usanze, delle origini, di tutto ciò che ci appartiene di oggi e di ieri.
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei, resta ad aspettarti. Cesare Pavese