Intervista con Anna Meli, capo progetto dell’Area Promozione dei Diritti di Cittadinanza del COSPE, sulla rappresentazione dell’immigrazione e la diversità nei media, i media multiculturali e i giornalisti stranieri.
Parlare in Italia di media multiculturali, giornalisti stranieri, rappresentazione dell’immigrazione e diversità nei media, e cercare di avere una visione complessiva su questi ambiti, significa rivolgersi al COSPE, ong fiorentina che opera in più di 30 paesi diversi. Dalla fine degli anni ’90, Cospe è impegnata nel monitoraggio dei media sull’immigrazione, nell’advocacy e l’empowerment dei giornalisti stranieri e dei media multiculturali. Ma anche nella progettualità, la formazione, la consulenza e gli strumenti su questi temi. Un contributo fondamentale il suo nel mettere insieme e promuovere il dialogo e il confronto tra istituzioni, organi di rappresentanza dei mezzi di informazione, giornalisti italiani e stranieri, media multiculturali e mainstream.
Tanti i progetti realizzati e tanti anche quelli in corso. Tra i più importanti è stato il progetto europeo MEDIA’RAD, diventato catalizzatore e generatore di tanti altri. COSPE ha accompagnato i percorsi di costituzione della Rete MIER che raggruppa i media interculturali della regione emiliano-romagnola, e dell’ANSI, il gruppo di specializzazione dei giornalisti stranieri all’interno della Federazione Nazionale della Stampa.AlbaniaNews ha parlato su queste tematiche con Anna Meli, capo progetto dell’Area Promozione dei Diritti di Cittadinanza.
Da alcuni anni monitorate i mezzi di informazione locali sul modo in cui parlano di immigrazione. Cosa è venuto fuori?
La rappresentazione dell’immigrazione nei media locali rispecchia molto quella dei media nazionali. Si tratta di un’informazione molto stereotipata, relegata nella cronaca, spesso in quella nera che da poca voce agli immigrati anche quando sono protagonisti della notizia. Lo dimostrano i dati delle ricerche che vengono svolte sia a livello nazionale che locale. C’è anche un circolo vizioso fra discorso politico e discorso mediatico per quanto riguarda il tema dell’immigrazione, per cui un fatto di cronaca diventa un fattore di auto-alimentazione del dibattito pubblico e spesso politico. Non vengono mai consultati fonti alternative, sia locali che nazionali, o esperti del tema di immigrazione, se non per rafforzare alcune tesi rispetto a comunità o nazionalità specifiche. In generale, questo è un problema trasversale di tutta la stampa italiana che a livello locale si fa sentire molto.
Rispetto agli anni passati come si presenta la situazione oggi?
A livello generale, l’impostazione con cui i media rappresentano il fenomeno non è cambiata in modo radicale. Anzi, in verità se uno dovesse fare un excursus storico dagli anni 90 ad oggi, per quanto riguarda il linguaggio utilizzato c’è assolutamente una regressione e molto meno attenzione. Dall’altra parte, va detto che in questo panorama negativo ci sono delle esperienze positive e tentativi di migliorare la qualità dell’informazione su questo tema. C’è il gruppo dei “Giornalisti contro il razzismo” che sono molto attivi e hanno fatto proprio un decalogo sulle parole da non utilizzare e quelle completamente da abolire nel linguaggio giornalistico. C’è stata l’importante iniziativa della Carta di Roma, il codice deontologico promosso dall’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa. Sono tutti segnali positivi almeno in termini di una maggiore attenzione, ma nella pratica quotidiana si fa fatica a vedere un cambiamento significativo. Uno degli strumenti attuali per un’informazione attenta sui temi dell’immigrazione è il Protocollo di Comunicazione Interculturale della Regione Emilia-Romagna. COSPE è stata uno dei promotori. A due anni dalla firma, come sta andando?
Il Protocollo regionale nasce da un esperienza locale molto interessante fatta su Forlì. È stata la Provincia di Forlì – Cesena a promuovere in primis questo tavolo di confronto fra giornalisti della stampa locale e realtà della comunicazione interculturale cioè i media multiculturali promossi dagli immigrati e i giornalisti stranieri. Al termine si è arrivato a un protocollo in cui, da una parte, si riportava all’attenzione della stampa locale l’importanza di trattare il tema diversamente dalla solita cronaca, e dall’altra di riconoscesse l’importanza di avere fonti maggiori già presenti sul territorio. Invece, il Protocollo regionale cerca soprattutto di mettere attorno ad un tavolo anche gli interlocutori istituzionali del mondo dell’informazione quali l’Ordine dei giornalisti, il sindacato della stampa regionale e gli uffici regionali del CORECOM. Allargando il campo, si sono allargate le finalità e il Protocollo è diventato più una dichiarazione di principi e volontà di collaborazione a tutto tondo. Questi protocolli hanno il vantaggio di mettere insieme soggetti che speso non si parlano fra di loro anche se fanno cose simili. Ad esempio il CORECOM della Regione Emilia Romagna aveva già promosso alcune ricerche e iniziative, e l’idea di condividerle con questi attori era importante. Certo è che dal punto di vista operativo, mi sembra che a due anni di distanza dalla firma si sia fatto poco per continuare a disseminarlo sul territorio. Il Protocollo doveva essere un po’ un accordo quadro per poi lavorare più sul territorio con la stampa locale e favorire il dialogo con le associazioni degli immigrati. Ora come ora mi sembra che queste tipo di attività non sono state portate avanti. Rimane comunque un accordo unico nel suo genere in Italia e fa un passo in avanti proprio perché mette insieme livello istituzionale e quello dei media e cerca di dare un ruolo paritario anche ai media multiculturali, alle associazioni e ai singoli immigrati che possono dire sicuramente molto delle loro esperienze.
In questo ambito avete seguito anche la costituzione della Rete MIER. Basta fare rete per superare le difficoltà che questi media hanno?
Di sicuro non basta. Abbiamo ritenuto insieme ai media multiculturali della regione che le singole esperienze delle testate che venivano realizzate nelle varie provincie, potevano avere maggior peso e visibilità se si mettevano insieme per costituire una rete e un consorzio di testate. Siamo stati stimolati in questa direzione anche da esperienze che abbiamo visto a livello europeo in altri paesi come la Francia, l’Olanda, ma soprattutto negli Stati Uniti dove esistono già consorzi di migliaia di testate cosidette etniche che funzionano e hanno anche un peso politico nel panorama mediatico sempre più consistente. L’auto-rappresentazione dei migranti nei media è spontanea oppure indotta dalla rappresentazione che i mezzi di informazione di larga diffusione offrono di loro?
Le nostre indagini sui media multiculturali dimostrano che la molla che ha spinto molte persone di origine straniera a investire in questo settore erano soprattutto il cercare di controbilanciare un’informazione troppo parziale e scorretta, e la voglia di rappresentare una realtà diversa che poi è quella vissuta quotidianamente. Si tratta di una caratteristica molto specifica dell’Italia. In altre realtà europee, tra i media multiculturali c’è il bisogno di fare un’informazione anche di servizio verso la propria comunità, ci sono anche scopi più o meno commerciali, ma questa spinta forte a contrastare una rappresentazione cosi negativa e renderne una diversa ai propri connazionali è molto sentita in Italia. Nei media di larga diffusione in Italia il singolo lettore di origine straniera non viene rappresentata in maniera adeguata. Pertanto, questo cerca altri strumenti per informarsi meglio ed avere un punto di vista diverso.
Quali sono i vantaggi che questi media portano al mondo dell’informazione?
Credo la possibilità di dare delle letture diverse a fatti che riguardano la vita di tutti noi in questo paese. Dall’altra parte, sono anche strumenti di partecipazione dei cittadini immigrati alla vita pubblica, e una dimostrazione della voglia di sentirsi parte e non solo oggetto del discorso pubblico. Per questo motivo, riteniamo che le istituzioni dovrebbero continuare a sostenere questo tipo di iniziative. E anche se sono strumenti in lingua non devono essere visti come auto-ghettizzanti, anzi l’idea di una riaffermazione della propria identità e lingua deve essere vista come valorizzazione della propria cultura d’origine. Poi è importante avere anche lingue diverse in una paese che purtroppo parla molto poco altre lingue. E gli svantaggi?
Gli svantaggi possono esser un po’ quelli di parlare a un pubblico ristretto perché sembra paradossale che alcuni strumenti in lingua vogliano magari essere strumenti di dialogo con chi quella lingua non parla. Anche in altri paesi, le prime generazioni di immigrazione hanno teso soprattutto a parlare nella propria lingua madre. Ad esempio, in Francia c’è stato poi un recupero del francese e nelle terze e quarte generazioni un recupero della lingua madre. Sono anche fasi storiche dei percorsi migratori che un paese vive. Sicuramente la debolezza e la frammentarietà di questi media possono essere un grande handicap. In Italia non abbiamo una comunità nazionale di origine straniera molto forte come quella turca in Germania oppure quella magrebina in Francia. Il pan
orama dell’immigrazione è molto frastagliato fra le varie nazionalità e quindi finiscono per avere pubblici di riferimento molto piccoli, fattore che incide anche sulla loro sostenibilità. Non devono essere solo progetti a breve termine ma anche come strumenti che cercano di guardare al mercato mediatico in maniera più professionale.
Oggigiorno si parla di diversità nei media. Di cosa si tratta?
Molti grandi gruppi editoriali si sono posti la questione della diversità nei media che vuol dire avere codici di autoregolamentazione interni sulla rappresentazione delle culture e della diversità culturale in generale. Nei servizi pubblici radiotelevisivi a livello europeo esistono i “diversity department” cioè i dipartimenti sulla diversità culturale. Devono garantire gli standard che l’azienda si da perché tutte i cittadini che usufruiscono di quel servizio, come i telespettatori della BBC piuttosto che quelli della televisione francese, si sentano rappresentati. Dall’altra parte, all’interno ci sono politiche di risorse umane che mirano ad avere del personale con background e origini diverse per garantire nel modo migliore punti di vista diversi e quindi un pluralismo dell’informazione. Su questo aspetto com’è messa l’Italia rispetto al panorama europeo?
Sembrano discorsi molto lontani, in verità come al solito finisce che il mondo imprenditoriale è più avanti rispetto al servizio pubblico: c’è sempre una maggiore attenzione al pubblico immigrato anche come consumatori e utenti di servizi. Ma ci sono state alcune esperienze positive. Ad esempio quella di Metropoli della Repubblica che aveva un corpo redazionale misto fatto di giovani anche di seconda generazione. Peccato che il nostro servizio pubblico radiotelevisivo non si interroghi sulla funzione di utilità pubblica che dovrebbe avere verso tutti i cittadini. Spesso in Europa, la questione della diversità nei media è partita da lì. Ma da noi questo senso del pubblico manca ed effettivamente non è ancora vicino.
Perché costituire dei media multiculturali? Non è meglio invece puntare a far parte delle redazioni dei media mainstream?
Sono ambedue delle vie, non le vedo alternative ma complementari. Possono convivere strumenti informativi che si rivolgono a un certo pubblico e vogliono puntare più sulla valorizzazione della cultura e della lingua come fattori aggreganti, insieme all’idea e speriamo anche alla pratica di avere redazioni sempre più interculturali formate da giornalisti di varia provenienza. È possibile cambiare il modo in cui si fa informazione partendo dal livello locale? I migranti come possono essere attori di questo cambiamento?
Il livello locale in Italia, a mio avviso, è molto importante perché in tutti gli ambiti dell’immigrazione le esperienze più significanti sono state fatte nel territorio. Nel settore dei media è interessante proprio perché ci sono due fattori importanti. Il primo è la vicinanza. Il fatto che in uno stesso territorio più delimitato si hanno maggiori opportunità di frequentare persone di origine immigrate e di viverle in modo diverso, deve essere una molla a una curiosità maggiore. La radio cosi come la stampa locale hanno più bisogno di storie che vengono dal territorio. La realtà è oggigiorno multiculturale e penso che l’informazione si possa arricchire maggiormente di storie che vengono anche da questo mondo. Il secondo fattore è la funzione di servizio che in ambito locale è più forte. Credo che la stampa locale debba servire veramente un territorio e credo che ci possano essere legami e relazioni maggiori. Il ruolo dell’associazionismo è molto importante: devono esserci maggiori opportunità di scambio fra il mondo dei media e quello dell’associazionismo immigrato.
Certo è che bisogna rompere le diffidenze reciproche. Anche le associazioni degli immigrati sono spesso giustamente stufe di essere a disposizione dei media perché sanno che rigirano le storie un po’a loro piacimento. Bisogna darle degli strumenti su come dialogare meglio con i media, su come relazionarsi in maniera più positiva. Sicuramente sono due mondi che si devono incontrare di più proprio perché uno può essere fonte di informazione e l’altro può essere veicolo delle attività delle associazioni che spesso non hanno visibilità. L’Associazione Nazionale Stampa Interculturale è un’altra realtà che avete sostenuto nel percorso di istituzione. A cosa serve creare un gruppo di specializzazione di giornalisti stranieri all’interno della Federazione Nazionale della Stampa? Non è una sorta di chiusura?
Noi abbiamo accompagnato insieme a molti dei giornalisti che adesso fanno parte dell’ANSI, un percorso iniziato diversi anni fa di confronto sulle problematiche relative alla professione giornalistica per chi non aveva la cittadinanza italiana. L’idea di formarsi in gruppo di specializzazione è nata dai singoli giornalisti che hanno animato il gruppo. Non si trattava di chiudersi in un ghetto. Lo dimostra il fatto che non hanno creato un’associazione a se stante, ma hanno chiesto al maggiore sindacato nazionale dei giornalisti di essere parte attiva con le loro specificità per dialogare con gli altri colleghi e trovare soluzioni alle difficoltà incontrate dai giornalisti stranieri. Quindi, la vedo come una spinta ed esempio di partecipazione attiva nell’ambito del più grande sindacato della stampa.
Quali vincoli sono rimasti nell’esercizio di questa professione da parte dei giornalisti stranieri?
Come sollecitato più volte dai giornalisti dell’ANSI, nel passato, spesso ai giornalisti stranieri che facevano domanda di iscrizione all’Ordine, li venivano chiesti più documenti rispetto a quelli italiani, ma soprattutto venivano e vengono ancora inseriti in alcuni Ordini nell’elenco dei giornalisti stranieri, anche se lavorano per testate italiane e non sono corrispondenti di quelle estere. Questa è stata una battaglia sulla quale il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha preso posizione e ha emesso una circolare dopo aver sentito anche il Ministero di Giustizia. Sono stati fatti dei passi in avanti, però l’organizzazione amministrativa degli ordini fa sì che rimangono ancora ostacoli in alcuni di essi. L’ANSI sta lavorando su questo versante per cercare di avere un’uniformità di trattamento. Un altro vincolo è quello del direttore responsabile che deve avere la cittadinanza italiana. È stabilita in una legge istitutiva dell’Ordine e su questo sicuramente l’ANSI farà un’azione di pressione affinché venga cambiata. Ad esempio, pensate alle testate in lingua cinese che devono avere un direttore responsabile con cittadinanza italiana. In ultima e non meno importante è il vincolo sulla proprietà dei mezzi di informazione. Per iscriversi al tribunale e registrarsi come editore continua ad esserci il vincolo di avere anche in una società il rappresentante legale con cittadinanza italiana. Dal progetto Mediam’Rad è scaturita anche la Piattaforma dei Media Multiculturali. Oggi possiamo sostenere che le problematiche sollevate in questa Piattaforma si siano risolte?
Non tutte purtroppo. Alcune delle questioni sollevate rimangono forti. Devo dire che quel documento è stato un po’ alla base del lavoro in parte dell’ANSI stesso, perché molto dei suoi promotori sono gli stessi giornalisti che hanno creato il gruppo di specializzazione. Altre questioni attengono più agli editori di testate multiculturali, alcuni dei quali stanno lavorando insieme a livello regionale come la Rete MIER. Altri continuano il proprio lavoro in altre regioni. Andrebbe fatto un cartello comune di alcune problematiche per cercare di portarle avanti, anche se in questi anni sono state fatte iniziative importanti. Credo che ci sia da parte degli organi dell’Ordine dei giornalisti e le asso
ciazioni della stampa una maggiore consapevolezza e sensibilità sull’importanza del tema per migliorare di fatto la convivenza pacifica e rispettosa nel nostro paese. Invece, le conseguenze negative di una rappresentazione basata sulla paura sugli stereotipi, purtroppo, le stiamo vivendo tutti i giorni.
Al termine del progetto Mediam’Rad si è fermato anche il Premio Moustafa Souhir che nelle sue tre edizioni dal 2004 al 2006 ha premiato il miglior mezzo di informazione radiofonico, cartaceo e televisivo. Quali meccanismi attivare per poter riproporre una quarta edizione?
Il Premio è stato una bellissima esperienza, anche a livello umano. Un po’ perché ricordava un nostro collega Moustafa che è morto prematuramente. Anche lui era uno dei promotori di un media multiculturale e per noi era un bel modo di ricordarlo. Il Premio è stato sospeso soprattutto perché era un lavoro fatto prevalentemente a carattere volontario quindi con uno sforzo organizzativo enorme in cui ci abbiamo creduto tre anni ma che non poteva reggere poi molto. Non ci auguriamo per esempio che i premi che vengono citati nella Carta di Roma o altri strumenti che danno visibilità alle esperienze positive, possano essere replicati e possano prendere un po’ dall’esperienza del Premio Moustafa Souhir. Sarebbe importante che continuasse ad esistere un premio del genere perché premia il lavoro di tante persone che spesso a carattere volontario e con molta passione continuano a fare questa professione. Lo riteniamo importante e ci auguriamo che altri, insieme a noi o anche da soli, possano ricuperare questa esperienza e portarla avanti.