Intervista con Roland Jace, dirigente del PD bolognese ed esperto in politiche di immigrazione, sui diritti di cittadinanza e la partecipazione politica dei cittadini di origine straniera in Italia.
“Per i cittadini non autoctoni diventa ancora più difficile fare politica dal momento che acquisiscono la cittadinanza italiana, perché in qualche modo diventano anche concorrenti nella politica attiva”. A dirlo è Roland Jace, da 18 anni impegnato in politica e da giugno dell’anno scorso anche segretario del Circolo Berlinguer-Moro in una delle zone più popolari della città delle due torri e “uno dei tre più grandi del PD nella Provincia di Bologna”. A pari passo con l’avvicinamento e la militanza in politica, Jace arrivato in Italia nel 1988, si è impegnato nelle politiche di immigrazione e inclusione sociale dei cittadini migranti nel territorio bolognese. Dal 1996 lavora per il Comune di Bologna, prima nell’Istituzione dei Servizi per l’Immigrazione, poi nel settore delle politiche sui minori e attualmente in quello delle politiche abitative. Non usa mezzi termini Jace quando si tratta di parlare di immigrazione: “la politica italiana non è matura per affrontare come si deve la questione della governance delle politiche migratorie”. “Da una parte, i partiti del centrodestra spalleggiano la questione immigrazione per far paura ai cittadini e prendere voti. Dall’altra, i partiti del centrosinistra, che in principio sono per l’integrazione, nel concreto non hanno un’alternativa da offrire”. Ma anche quando si tratta di cittadinanza e diritto di voto: la discussione sulla cittadinanza si può risolvere facilmente “con una legge organica” ma è una scappatoia per allontanare l’attenzione dal “vero problema” ossia “la mancanza di politiche di integrazione”. E sul diritto di voto basterebbe “ratificare il Capitolo C della Convenzione di Strasburgo del 1992” e i cittadini che risiedono regolarmente da 5 anni potranno votare alle elezioni amministrative alla pari di quelli italiani. Jace è molto attivo anche nel mondo dell’associazionismo e della partecipazione dei cittadini migranti nella sfera pubblica. Fondatore dell’associazione albanese “Tutti insieme” nel 1996, dal 2003 al 2005 è stato anche Presidente del Forum Metropolitano che raggruppa le associazioni dei migranti della Provincia di Bologna. Invece, dal 2005 al 2010 ha coperto anche la carica di Vice Presidente durante il primo mandato della Consulta regionale per l‘integrazione sociale dei cittadini migranti. Albanianews lo ha intervistato proprio per avere la sua opinione su queste tematiche molto attuali nel dibattito pubblico e politico sia a livello nazionale che locale.
L’Unità di Bologna qualche mese fa l’ha definito “il segretario che viene da lontano”. È difficile per un cittadino non autoctono fare politica?
Nell’Italia di oggi, sì. Per i cittadini non autoctoni diventa ancora più difficile dal momento che acquisiscono la cittadinanza italiana perché in qualche modo diventano concorrenti nella politica attiva. Sappiamo che i cittadini stranieri non godono del diritto elettivo passivo e attivo, quindi non possono essere eletti e non possono neanche votare se non all’interno delle consultazioni all’interno dei partiti come nel caso delle primarie del PD. Per cui hanno solo un diritto partecipativo in varie forme di rappresentanza sociali. E dal momento che uno diventa italiano e ha la possibilità di valorizzare le proprie esperienze, diventa difficile partecipare politicamente in Italia.
Diventa difficile farla all’interno delle strutture del proprio partito oppure nei confronti degli avversari politici?
Diventa difficile nel senso lato. Prima di tutto poter esprimersi nella politica. Adesso si avvertono due tendenze. Nella prima i partiti, di solito sotto le elezioni, per dimostrare ai cittadini italiani e comunitari che sono favorevoli alle politiche di integrazione, candidano persone tali da poter essere distinti dai cittadini italiani. In altre parole, non candidano cittadini provenienti ad esempio dall’Est Europa, ma cittadini provenienti dall’Africa perché devono far vedere la differenza di carnagione ed è una tendenza doppiamente discriminatoria. Nella seconda, durante la campagna elettorale, i partiti se la prendono con i cittadini stranieri. Infatti, quando parlano delle politiche di immigrazione, le collegano subito con quelle di sicurezza, parlando quasi esclusivamente di espulsioni e anche questa tendenza è chiaramente discriminatoria. Questo è il quadro in cui un cittadino straniero divenuto anche italiano partecipa alla politica. E all’interno del partito come sono i rapporti con iscritti e dirigenti?
Sono segretario di uno dei tre circoli più grossi della provincia di Bologna e sono stato eletto con entusiasmo quasi raro. Subito dopo ho notato che ci sono delle difficoltà e le constato ogni giorni nel rapporto con il semplice iscritto ma soprattutto con i dirigenti. Quest’ultimi si sentono sempre superiori, cosa che ti porta spesso a mostrare i muscoli per poter mantenere la tua posizione. Sicuramente, è una reazione negativa ma quasi indispensabile nei rapporti interni della politica di oggi. La questione della superiorità è legata proprio alla tua provenienza oppure alla struttura interna di un partito?
Sarà una mia impressione errata ma è legata propria al confronto e all’approccio che si ha con chi proviene dall’estero. Nella politica italiana, come in tutti i campi della società, c’è un crollo culturale considerevole. Quindi se uno non proviene dall’America, dalla Svizzera oppure da un paese comunitario, scatta il meccanismo della superiorità. Si ha l’idea che gli italiani siano superiori politicamente e culturalmente nei confronti delle altre persone. Considerazione assolutamente falsa che ti porta a contrastare questo tipo di atteggiamento culturale e politico. Nelle tornate elettorali, il centrodestra esprime in modo chiaro la propria visione sull’immigrazione, usandola come cavallo di battaglia. Invece, il centrosinistra non offre un’alternativa chiara: si limita a seguire l’avversario. L’elettore non schierato politicamente preferirà l’originale oppure la fotocopia?
Intanto, bisogna dire che a livello politico nazionale durante le ultime campagne elettorali c’è stata una conversione di tendenza. A differenza delle altre tornate, solo la Lega Nord, radicata in una certa area del territorio nazionale ha continuato a battere sulla questione immigrazione. Per un motivo molto semplice: i partiti di centrosinistra e quelli di centrodestra non ne parlano più perché si è visto che nei 20-25 anni di immigrazione in Italia, le politiche nazionali sono state destinate a fallire. Invece a livello territoriale lo scontro è aspro, perché è nel territorio in cui si vive che vengono concepite oggi le politiche sociali. Da una parte, i partiti del centrodestra spalleggiano la questione immigrazione per far paura ai cittadini e prendere dei voti. Dall’altra, i partiti del centrosinistra, in principio, sono per l’integrazione, ma nel concreto non hanno un’alternativa da offrire. In verità, l’alternative si trova nei numeri, nella composizione e nell’apporto sociale, culturale ed economico della comunità dei cittadini stranieri alla società e all’economia italiana. Il problema è un altro: anche a livello europeo da dieci anni a questa parte c’è una chiusura e un arretramento dell’approccio politico nei confronti degli stranieri per quello che riguarda non solo le politiche di integrazione ma in primis la loro partecipazione politica. Perché farla solo una questione di numeri? Sicuramente per sfatare i costrutti politici dell’avversario, ma oggigiorno non è possibile costruire un discorso politico fondato sulla cultura dei diritti che con grande sforzo la tradizione democratica e liberale europea ha messo su negli ultimi 300 anni.
C’è una tendenza ormai nota di chiusura da parte dell’Europa in qua
nto istituzione. L’esempio più eclatante è la bocciatura da parte del Parlamento europeo nel 2008 della proposta di estendere il diritto di voto alle amministrative ai cittadini migranti residenti in tutti i paesi dell’Unione. Ciò dimostra che l’Europa per quello che rappresenta politicamente in questo momento è contro il riconoscimento di quei diritti principali scalfiti nella Carta dei diritti dell’uomo dell’Unione. Assistiamo ad una fase di crepuscolo politico in Italia e in Europa a cui bisogna rispondere. Ovviamente, a questa tendenza che è propria dei partiti di centrodestra, i partiti di centrosinistra sia a livello nazionale che europeo ad oggi non hanno ancora trovato un alternativa migliore. Si parla di immigrazione e la si usa dalla politica anche perché i cittadini stranieri non hanno la cittadinanza. Immaginiamo una ragazza nata in Italia che compiuta i 18 anni non ha richiesto la cittadinanza entro il termine previsto dalla normativa e adesso nel 2011 spera di convertire il suo permesso per motivi di studio a uno per motivi di lavoro. Ne ha mai conosciuta una? E perché più si parla di concessione della cittadinanza e più si allontana dall’obiettivo?
Ho lavorato tanti anni con i minorenni e ho conosciuto molti giovani nati in Italia da genitori stranieri che all’età di 18 anni nei sei mesi di tempo in cui si può presentare la domanda, non erano nelle condizioni di poterlo fare e sono stati espulsi dall’Italia. Parliamo di giovani mandati nei paesi d’origine dei propri genitori, realtà a loro del tutto estranee. Questo succede perché in Italia non vige il diritto alla cittadinanza. La cittadinanza è una concessione tra l’altro non sindacabile. Cioè a domanda fatta, in caso di diniego l’autorità competente, ossia il Ministero dell’Interno, non ha l’obbligo di spiegarne i motivi. Oggi è una problematica ancora più presente perché c’è un numero crescente di bambini nati in Italia da genitori stranieri. Tutti partiti si sono resi conto che non si può andare avanti così, ma ad oggi non è stata trovata una maggioranza che voti una delle proposte di modifica della normativa sulla cittadinanza, avanzate dagli stessi partiti. Dall’altra parte, la discussione sulla cittadinanza è una scappatoia per non parlare del vero problema che riguarda la mancanza di politiche concrete ed efficaci per l’integrazione dei quasi 5 milioni di cittadini stranieri che vivono in Italia. In verità, come sostengono molti giuristi, è facilmente realizzabile attraverso una normativa organica non costituzionale che modifica la legge del ‘92 sulla cittadinanza.
La proposta effettiva per la modifica della legge sulla cittadinanza?
Intanto bisogna parlare di modifica della normativa sull’immigrazione. Quindi riprendere i capitoli quarto e quinto della legge del 98 che trattano le politiche di integrazione per i cittadini residenti in Italia da cinque o più anni. Invece, per la modifica della legge del 92 sulla cittadinanza, basta rivedere gli articoli due e cinque in cui si parla del periodo di residenza per poter richiedere la cittadinanza. Basterebbe aggiungere un articolo in cui si dice che i bambini nati da genitori stranieri residenti in Italia da tot. anni acquisiscono la cittadinanza italiana.
I non nati in Italia dopo quanti anni di permanenza devono avere la cittadinanza?
Per i non nati in Italia, basandosi sullo spirito della Convenzione di Strasburgo del 1992, dopo cinque anni di residenza.
Il nocciolo della questione della cittadinanza sono i diritti politici e quindi anche quello di voto, nel caso dei migranti legato soprattutto alle elezioni amministrative. Se ne parla da alcuni anni con più enfasi ma la politica italiana non è matura abbastanza da assumersi questa responsabilità politica. Come si fa a spuntarla?
Infatti, da più parti viene ribadito il fatto che l’Italia non ha ratificato il Capitolo C della Convenzione di Strasburgo del 1992, e dimostra chiaramente che la politica italiana non è matura per affrontare come si deve la questione della governance delle politiche migratorie. È un cane che si morde la coda. Non si vuole modificare la normativa perché modificandola dovremmo riconoscere un’infinita di diritti ai cittadini stranieri. Dall’altra parte, nel contesto attuale per i partiti politici è facile acquisire voti perché hanno sempre la persona o il gruppo sociale a cui dare la colpa durante la campagna elettorale. Pare di capire da più parti che l’Italia va male per colpa dei cittadini stranieri. Invece, l’Italia va male perché non ha fatto le riforme dovute, ha un sistema politico che non regge più e un sistema economico che va rinnovato. Quali vantaggi possono derivare dalla concessione del diritto di voto e dopo quanti anni di permanenza in Italia va concesso?
Il vantaggio principale è quello della responsabilizzazione. I cittadini stranieri diventano responsabili nei confronti delle scelte della classe politica e delle politiche che vengono attuate sul proprio territorio, ma anche nei confronti dei loro connazionali. Per farlo basterebbe ratificare il capitolo C della Convenzione di Strasburgo che propone di dare il diritto di voto ai cittadini che risiedono da cinque anni nel territorio della stato. Quindi si tratta di una soluzione alla portata di mano, resa difficile perché toglie un argomento a quella parte della classe politica che a nome dell’immigrazione guadagna voti. Una popolazione di circa 5 milioni di residenti non può essere lasciata nel silenzio e messa nell’oblio ma deve essere preso in considerazione e rimane un problema che la politica italiana deve assolutamente risolvere. Non sarebbe più equo concedere il diritto di voto alla pari dei cittadini comunitari? Quindi dall’atto dell’iscrizione anagrafica. D’altronde essere cittadino comunitario non significa conoscere l’ordinamento politico e istituzionale italiano più di uno non comunitario.
Sì, però l’Unione Europea ha unificato le procedure relativamente a molte sfere della vita, compresse quello del diritto di elettorato attivo e passivo. Ciò presuppone che un cittadino comunitario già nel proprio paese ha gli stessi concetti e le stesse esperienze di un cittadino di un altro paese comunitario. Ecco perché i cittadini comunitari hanno gli stessi diritti nelle elezioni amministrative dei cittadini italiani. Insomma, si presuppone che oggi il cittadino romeno o francese sia in grado alla pari del cittadino italiano di saper scegliere nell’essere eletto o eleggere.
Cosa significa che un cittadino africano non lo è?È un principio assurdo ma il significato è proprio questo: un cittadino comunitario è più preparato ad esprimere il proprio voto all’interno di un altro paese della Comunità europea rispetto ad un cittadino non comunitario. Pensare e ufficializzare che un cittadino italiano o francese sia più in grado di uno senegalese o albanese nell’esprimere il proprio voto è una chiara espressione discriminatoria che dimostrare anche quanto l’Europa oggi manchi di strategie di apertura sociale e politica.
Nel passato è stato molto attivo nel Forum Metropolitano di Bologna e anche suo Presidente. Oggi, il Forum raggruppa più di 60 associazioni di migranti. Sembra che le associazioni dei migranti siano più incentrate nell’ambito della valorizzazione delle culture, dell’intercultura e dei servizi. Basta per poter cambiare la società di oggi? Non manca qualcosa?
Non basta assolutamente e dipende anche dal fatto che in Italia non c’è una normativa che promuova e sostenga l’associazionismo a differenza della Francia, dell’Austria e della Germania, in cui fatte le verifiche su un’associazione, questa viene sostenuta dallo stato con varie forme e finanziamenti locali e nazionali. In genere, le associazioni hanno poche riso
rse, quelle straniere ancora meno e sono deboli non solo dal punto di vista organizzativo ma anche da quello operativo. E quindi riescono a trovare spazi semplicemente dove si tratta di rivalorizzare la tradizione, distinguendosi nelle feste di indipendenza del proprio paese, nei momenti di scambi culturali e artistici oppure nelle feste multietniche. E un fattore che dimostra come in Italia siamo molto indietro rispetto agli altri paesi europei per quello che riguarda la vera partecipazione dei cittadini stranieri.
Parlando di partecipazione, i diritti si conquistano o vengono concessi?
Per poter ottenere i diritti bisogna ricordarsi che nessun ti regala niente e quindi è un percorso fatto di battaglie forti. Dall’altra parte, viviamo in un paese democratico che deve riconoscere i diritti fondamentali della persona ivi compresso quelli politici e partecipativi.
Per quanto riguarda i cittadini di origine straniera impegnati nella politica, sembra che spesso e volentieri da posizione radicali sul versante dei diritti politici e di cittadinanza, passino a posizioni molto moderate. La politica addolcisce?
Ci sono due tendenze. Nella prima la politica indurisce, e in questo caso ti mette alla larga, nella seconda ti ammorbidisce e quindi ne diventi parte, dimenticando i veri motivi e principi per cui hai cominciato a fare politica.È stato anche il Vice Presidente della prima Consulta regionale sull’immigrazione. Un bilancio del primo mandato?
La consulta nacque con delle ottime prospettive. Bisogna dire però che le modalità con cui viene eletta dimostrano già il primo difetto. Si tratta di un organo consultivo nominativo senza potere decisionale formata da cittadini italiani e stranieri. I membri di origine straniera vengono nominati dagli assessori provinciali alle politiche sociale: due per ogni provincia e si presuppone che siano attivi nella vita pubblica e conoscano le dinamiche territoriali del fenomeno migratorio. In verità non è stato così, sono state scelte molto soggettive. Basta ricordare che uno dei due rappresentanti di Parma lavorava come assistente familiare per cui faceva una vita molto chiusa e il contatto che aveva con l’Assessore provinciale aveva determinato anche la sua nomina. Non si può dire lo stesso per la Provincia di Bologna. L’Assessore ha chiesto alle associazioni del Forum Metropolitano e alle altre che non ne facevano parte di individuare un membro ciascuna. Bene, per proporre il suo, il Forum ha convocato un assemblea con due rappresentanti per ciascuna delle 48 associazioni aderenti allora. Dalle candidature proposte, le quattro più votate sono state inviate all’Assessore che ne ha scelto una.
Invece, gli obiettivi della Consulta sono stati raggiunti in parte. Il primo era quello di influire sulle decisione dell’Assemblea legislativa regionale. L’abbiamo fatto non semplicemente durante l’approvazione della programmazione triennale delle politiche di integrazione 2005 -2008 ma prima di tutto con atti concreti. La consulta è stato il fautore di 4 protocolli di intesa che miglioravano la vita dei cittadini stranieri a livello regionale. Ha promosso la creazione sul territorio dei centri provinciali contro la discriminazione e anche il Protocollo d’intesa sulla comunicazione interculturale. Avevamo posto con forza davanti alla giunta regionale l’importanza del sostegno e della promozione della comunicazione interculturale quindi del giornalismo fatto dai cittadini stranieri, maggior parte dei quali giovani. La Consulta regionale sull’immigrazione è su base nominativa, invece quelle comunali e provinciali su base elettiva. Funzionano?
Intanto le consulte non sono organi autonomi dipendono sempre dalle amministrazioni locali. Sono esperienze su base elettiva ma di nuovo viene evidenziata la mancanza di esperienza sia organizzativa per quanto riguarda le elezioni sia promozionale per quanto riguarda l’avvicinamento dei cittadini stranieri. Ho seguito le elezioni della Consulta della Provincia di Ferrara, ho partecipato alla elezioni della Consulta di Forlì-Cesena, abbiamo promosso la consulta dei cinque comuni confinanti con Bologna, abbiamo lavorato alla costituzione della Consulta di Monzuno e del Consiglio provinciale di Bologna. In tutte queste esperienze, il livello operativo e di promozione delle associazioni straniere è stato basso. Ci manca l’esperienza non si è lavorato molto su questo versante. Tuttavia, è un difetto destinato a scomparire con l’avvento delle seconde generazioni che vivono all’interno della società, capiscono meglio i suoi codici comunicativi e sanno interagire molto meglio di noi. Quali dovrebbero essere le tre priorità della politica italiana nell’ambito dell’immigrazione?
Prima di tutto va modifica la normativa sull’immigrazione. Con la legge Bossi Fini non si può andare più avanti. La seconda dovrebbe essere la modifica della normativa sulla cittadinanza perché solo con una cittadinanza piena si può avere una partecipazione piena. La terza dovrebbe riguardare le politiche formative. Tutt’oggi, dopo 15 anni di promozione di politiche territoriali, la fetta più grande dei fondi va per i corsi di italiano invece i cittadini stranieri avrebbero bisogno di corsi di formazione professionale alla pari dei cittadini italiani.