Intervista con il Segretario generale della Rete MIER, Faustin Akafack, sulle potenzialità e le problematiche dei media fatti da cittadini e giornalisti migranti e italiani.
Costituita formalmente nel 2010, la Rete dei Media Interculturali dell’Emilia-Romagna, è una realtà innovativa che raggruppa gli editori dei mezzi di informazione create da cittadini e giornalisti migranti e italiani in questa regione. Che siano definiti “interculturali”, “multiculturali” o “etniche”, questi mezzi di informazione irrompono nel mercato italiano spinti dall’esigenza di auto-rappresentarsi e rendere un’immagine diversa e più vicino alla realtà di quella offerta dai media mainstream.
Un settore dalle grandi potenzialità e molto dinamico: ad oggi si contano più di 500 iniziative. E anche un settore destinato a cambiare il modo di fare informazione in Italia per recuperare la funzione di servizio verso tutti i cittadini, contribuire a conoscere i fenomeni migratori e diffondere anche il concetto della diversità nei media.
Dall’altra parte, questi media sono caratterizzate da strutture deboli, dipendono soprattutto da finanziamenti pubblici e hanno collaboratori spesso non professionisti e impegnati in modo volontario.
La Rete MIER si inserisce in questo contesto, da una parte per dare il suo contributo nel modo in cui vanno rappresentati i temi dell’immigrazione nei media, dall’altra per risolvere le problematiche che questi media hanno, in primis quelli della sostenibilità economica e della formazione. Per capire meglio le potenzialità e le problematiche di questi media, Albanianews, che è anche una delle testate aderenti alla Rete MIER, ha intervistato il suo Segretario generale Faustin Akafack, giornalista di origine camerunese, fondatore della radio web Asterisco e del quotidiano Tamburo, entrambe testate bolognesi focalizzate sui temi dell’immigrazione e dell’intercultura.
È cosi importante l’auto-rappresentazione nei media?
Sì, più passa il tempo, più si conferma questa importanza anche per come la società è strutturato in Italia: ci sono categorie di ogni genere per tutelare gli interessi di un gruppo di persone che vuole essere tutelato o si sente in qualche modo minacciato. Quindi l’auto-rappresentazione è importante perché chi ti conosce meglio di te.
L’auto-rappresentazione nasce più come bisogno oppure come reazione alla rappresentazione che i media forniscono di chi decide di auto-rappresentarsi?
In anzitutto nasce come reazione perché la maggior parte delle nostre testate sono nate proprio perché non si sentivano assolutamente rappresentati, ma successivamente si trasforma in un bisogno perché viviamo in una società in cui alcune voci non sono sentite e se riusciamo noi stessi ad essere portatori di queste voci, non è più una reazione ma un bisogno. Quindi la missione diventa doppia. Da una parte, reagire sul modo in cui viene rappresentata l’immigrazione perché continua ad esserci una certa pigrizia tra giornalisti nel prendersi le proprie responsabilità, verificare le fonti e cercare di approfondire gli argomenti prima di scrivere con leggerezza pezzi che provocano il malessere generale della popolazione. Dall’altra parte, risolto questo aspetto, io torno alla vita di tutti giorni, vivo, faccio la spesa, faccio le stesse cose della gente del mio quartiere quindi è un bisogno di comunicare e di esprimersi. Tutti i giorni dobbiamo ricordare un po’ di cose per come dire tutelare i pochi privilegi e diritti acquisiti per non perderli.
Dopo le singole esperienze dei media multiculturali è nata anche la Rete MIER. In breve perché è nata?
La Rete MIER è nata per mettere in rete queste piccole realtà costituite singolarmente. Un proverbio del Burkina Faso, parafrasando una formica, ci insegna che mettendoci insieme sposteremmo un elefante. In questo caso, i media interculturali mettendosi insieme possono alzare il livello di pretesa perché hanno competenze e una serie di elementi che li permettono di allargare gli orizzonti e amplificare la loro voce.
Quando è nata la Rete?
Ufficialmente, il 2011 è il secondo anno della costituzione della Rete. Il progetto è nato tempo fa, ma si è formalizzato concretamente nel 2010. Siamo all’inizio della fase in cui la rete sta tentando di camminare con le proprie gambe e dopo un anno di attività ci sono molti progetti in cantiere.
Quali sono le difficoltà maggiori dei media interculturali?
La difficoltà principale è quella economica perché non si possono raggiungere gli obiettivi senza avere un minimo di finanziamento. La maggior parte dei nostri media non riescono a produrre e creare del profitto. Sono strumenti di socializzazione e comunicazione a disposizione della comunità. Queste testate nascono in questo ambito. Successivamente uno cresce, ha delle ambizioni e possibilità che possono essere quello di avere spazi pubblicitari. Il mercato etnico sta assumendo forme e quote piuttosto importanti in Italia e una Rete come la nostra vorrebbe essere un interlocutore per questo settore economico. L’unica possibilità concreta per farcela è l’auto-sostentamento. Molti progetti sono nati e poi sono morti perché erano finanziati. Quindi per la Rete MIER, se una testata riceve un finanziamento tramite il quale mette su la struttura, dopo bisogna che si dia da fare per rendere la sua realtà sostenibile, e la Rete ha tutte le condizioni di pretendere anche al mercato etnico.
Oltre a quella economica, altre difficoltà?
Sono convinto che risolvendo quella economica tutti il resto segue. Perché di fatto queste testate esistono, non devono essere create. Hanno fatto un certo percorso, hanno dimostrato di avere grinta e voglia di fare e hanno anche i numeri giusti per farlo. Bisogna dare una svolta alla sostenibilità economica per mettere tutti quanti nei binari.
È cambiato qualcosa in meglio rispetto agli anni passati?
La situazione è un po’ peggiorata. Oggi, per il fatto che il mercato etnico è sempre più appetibile dai grandi gruppi che sono dei mastodonti molto più potenti di una realtà come la nostra e tagliano i fondi alla sorgente. Noi stiamo lavorando per rendere la Rete MIER una realtà regionale forte. In questo momento in Italia non esiste una simile realtà e se riusciremo a raggiungere questo obiettivo, potremmo ribaltare la situazione e intercettare i fondi direttamente. Il peggioramento è legata anche al fatto che c’è concorrenza sleale perché i grandi gruppi oggi si rivolgono alle comunità straniere solo per interesse commerciale. Siamo nel libero mercato, ma l’etica vuole che i contenuti vadano in qualche modo verificati e monitorati se raggiungono in qualche modo gli obiettivi. Ed è anche la predominanza di questo interesse commerciale che giustifica la presenza di media multiculturali come i nostri.
Come sono i rapporti con i mezzi di informazione di larga diffusione? Ci sono collaborazioni, scambi di opinioni, formazione comune?
In questo momento qualcosa esiste. Ci sono delle collaborazione che portano risultati perché molti per difficoltà loro non possono coprire il settore che copriamo noi. A molti a loro non interessa, ma li stiamo dietro a dire cercate di consultarci, lo facciamo gratuitamente, ed è un messaggio che dovremmo ancora portare avanti per un bel po’. In questo ambito il nostro obiettivo è di trasformarsi un domani in un osservatorio, al quale i media di larga diffusione possono attingere per avere conferme e verifiche prima di pubblicare determinate cose. Anche se in questo momento non c’è ancora il flusso che vorremmo, stiamo lavorando in questo direzione.
Cosa significa trasformarsi in osservatorio?
Avere la possibilità di coprire ogni settore nel territorio sul tem dell’immigrazione con le nostre testate. Nessuno ci potrà battere sul modo di restituire questi temi a un pubblica di larga diffusione. In un primo momento, siamo a disposizione anche per collaborare con altri media di larga diffusione che hanno audience più grandi dei nostri.
Nell’ambito dei rapporti con i mezzi di informazione di larga diffusione si può inserire anche il Protocollo della Comunicazione Interculturale firmato a livello regionale due anni fa. Funziona?
Secondo il Protocollo, a livello pratico dovremmo tutti quanti osservare un certo modo di trattare i temi dell’immigrazione, ma sembra che non sia stata verificata l’applicazione a livello territoriale. In questo caso, la Regione che ha istituito questo strumento in qualche modo dovrebbe tenere monitorata la situazione, perché il protocollo di per sé rimane una dichiarazione di intenti comuni per rispettare alcuni criteri. In altre parole, è una domanda che dovrebbe essere rivolta a ogni firmatario perché il protocollo è stato firmato quando la rete non si era ancora costituita. Da parte sua, la Rete tramite le testate aderenti potrà in qualche modo costruire un sistema per valutare l’andamento.
Quanto conta nella descrizione giornalistica di chi commette un reato la sua provenienza?
È una fatto che non ci stancheremmo mai di sottolineare. La professione di giornalista insiste sul fatto di riportare i fatti che siano di interesse comune e che possano aiutare la gente a vivere meglio. Se fosse una regola generalizzata nessuno si lamenterebbe ma è nei casi specifici in cui uno straniero, un cittadino non italiano commette o è coinvolto in un reato che viene sottolineato la sua appartenenza. Di fatto non è una vergogna, però specificarlo proprio in quelli casi vuol dire che stiamo mettendo in evidenza che gli stranieri commettono i reati ed è questo che non va bene.
In certi periodi ci sono più cittadini non italiani dello stesso paese a commettere reati. L’ha notato?
Sì, e quando si avvicinano le elezioni si nota di più. È una cosa così sistematica che, come dice qualcuno, si ha l’impressione di essere sempre in campagna elettorale. Bisogna mantenere un clima di terrore, bisogna mantenere la popolazione sotto pressione e ogni tanto quando si vuole distrarre i cittadini dalle uscite dei governanti che ogni giorno ne dicono una, si pubblicano dati “preoccupanti”. Questa non è informazione è disinformazione. Penso che sia una cosa piuttosto grave perché le persone che lo fanno lasciano un eredità pesante da gestire agli altri. Quindi questi dati che vengono pubblicati in certi momenti sono molto spinti verso una certa direzione.
Si tratta di un inganno e un modo vigliacco di sfruttare delle persone che non hanno voce in capitolo. In Italia non si toccano certe categorie, come esattamente si toccano altre in alcuni momenti precisi proprio perché quest’ultime non possono dire niente. Gli stranieri non votano e fin che sarà cosi assisteremo a situazioni simili. Quando gli stranieri potranno votare, si parlerà di loro con rispetto.
La politica avrà le sue ragioni per muoversi in questa direzione, ma i mezzi di informazione lo fanno in modo consapevole e intenzionale oppure si limitano a fare solo il loro dovere?
Chiariamo un fatto. In Italia quando si parla di mezzi di informazione, bisogna ricordarsi che spesso ci sono dietro gruppi economici che appoggiano anche diversi parti politiche. In questo caso, alcuni dati rispondono alla visione che la politica ha, la quale quando vuole dare un messaggio in un certo modo, usa i suoi canali di comunicazione.
Dall’altra parte, nei vari incontri avuti anche con i colleghi italiani, spesso i giornalisti si difendono dicendo che hanno preso l’informazione nel modo in cui viene poi pubblicato. Allora, una rete come la nostra, li offre la possibilità di chiamarci prima per verificare ed avere conferme. Se la voce proviene dalla Rete MIER perché ha avuto tempo di verificare la cosa per conto di un terzo benissimo, noi facciamo il nostro ruolo e insistiamo per ripetere che ci siamo.
Un altro aspetto è legata alle difficoltà legate nell’esercitare questa professione, è una realtà che conosciamo. Dobbiamo cercare in qualche modo di venirci incontro e le varianti su cui lavorare sono principalmente tre: il primo politico: la gente deve prendersi le proprie responsabilità, il secondo è la carenza delle fonti e l’ultima: ognuno deve semplicemente fare bene il suo mestiere di giornalista senza preconcetti.
Nei contesti locali è diverso? Può essere che la cattiva informazione non venga fatta in modo intenzionale e consapevole?
Penso che sia uguale perché noi stiamo fotografando una realtà a livello locale, ma proiettata a livello nazionale gli effetti e le cause sono sempre le stesse. La politica a livello locale gioca tanto e per questo motivo viene sfruttato molto il tema immigrazione. Quindi la differenza tra informazione nazionale e locale è sottile. Però a livello locale c’è la possibilità di approfondire di più se vuoi fare bene il tuo mestiere: non è che scrivi da Bologna di quello che succede a Roma o Palermo. Siamo in regione e si fa prima entrare nel merito delle questioni locali.
Il modo in cui oggi si parla di immigrazione nei media, non pone come necessario il confronto e la formazione comune tra giornalisti italiani e stranieri?
Si è auspicabile, anche perché molti dei nostri redattori hanno poca esperienza e confrontarsi con chi lo fa da tempo, aiuta sempre. Dall’altro canto, se i colleghi italiani che lavorano a livello locale hanno piacere di delucidare alcuni misteri legati a comunità o abitudini specifiche, penso che potenzialmente tutti quanti siamo in grado di rispondere a questi quesiti. Nello stesso tempo, la Rete MIER cerca di organizzare periodicamente e creare le opportunità per avere confronti di questo tipo.
Invece di costituire media interculturali, non è meglio puntare a far parte delle redazioni dei mezzi di informazione di larga diffusione?
Penso che un cambiamento di questo genere sta avvenendo in qualche modo. Per essere chiamati giornalisti, bisogna meritarsi il titolo e darsi da fare. Molti dei nostri redattori non sono giornalisti ma persone che vivono quotidianamente delle situazioni e hanno voglia di raccontarle. In questo ottica, la nostra rete può essere considerata come l’anticamera, l’incubatrice che produrrà i giornalisti di domani. Molti hanno cominciato così: collaborando con le nostre testate, hanno scoperto la passione per il mestiere.
A quel punto è loro diritto, anzi è auspicabile cercare di integrarsi in queste redazioni perché la contaminazione è positiva. In questo momento, capito raramente. La Rete non è una realtà statica, ma si muove, cresce, e domani se un redattore di una delle nostre testate diventa giornalista, anche lui deve avere l’ambizione di lavorare per una testata che gli offre più opportunità. In questo senso non ci sono limiti. Importante è sapere che sia i media multiculturali, sia il singolo giornalista straniero, portano qualcosa in più nel mondo dell’informazione.
Sembra che nel mondo dell’informazione i giornalisti stranieri abbiano una sorta di specializzazione si occupano soprattutto di immigrazione, di Albania e comunque delle culture o dei paesi da cui provengono. Alla fine, la sfida del giornalismo italiano non sarebbe quella di far parlare Alban di Albania, ma Antonio che lo fa con cognizione di causa. È cosi?
Siamo stati un po’ costretti a essere immigrati e parlare di immigrazione. Ma un cambiamento sta avvenendo perché molti aspirano e cambiano, parlando di tutto altro. E quindi se vedranno il collega Antonio che parla male degli stranieri gli diranno “guarda di quell’argomento non si scrive così”. Oppure, quando in conferenza di redazione si avanza un tema da trattare con molti elementi che possono generare pregiudizi, il giornalista straniero in questa redazione anche se non si occupa direttamente di quel tema, dirà “impostato cosi provoca reazioni negative”.
Sicuramente, il fatto di essere straniero e parlare per forza di immigrazione è un limite perché molti stranieri hanno tante cose da esprimere oltre ad urlare la loro rabbia contro un sistema di comunicazione che li segrega nei vari compartimenti. In quest’ottica, lavorare nelle testate multiculturale non significa solo denunciare situazioni ma anche esprimere un talento. Mi piace la musica, mi piace la cultura in generale? Bene lo faccio anche per questi motivi, però parto dal dovere. È doveroso dire questo tema non va trattato così perché mi crea dei problemi. Io vedo il giornalista interculturale con questa doppia funzione.
Quali sono i prossimi passi per la Rete Mier?
Il primo è completare una strutturazione interna che ci permetterà di organizzare iniziative in modo autonomo. Questo è fondamentale perché siamo nati da poco, ma da un anno dalla nascita possiamo dire che le idee sono sempre più chiare sull’impostazione del lavoro. Dopo di che per quanto riguarda la collaborazione con il territorio, l’idea è di decentrare un po’ perché la Rete MIER nelle realtà locali delle nostre testate per consolidare una certa visione che la rete vuole portare nel panorama della comunicazione a livello regionale. Questo passerà attraverso eventi ed incontri che permetteranno di esplorare sempre rimanendo nei temi dell’immigrazione e dell’intercultura.