Tanti gli spunti di riflessione sui meccanismi dei mezzi di informazione, il linguaggio utilizzato dai giornalisti e la responsabilità che questi hanno nel fotografare la realtà, in un incontro su media e immigrazione svolto giovedì 20 gennaio a Modena.
Spesso e volentieri, giornalisti e redattori, in modo consapevole o involontario, per libera scelta o costrizione, per mancanza di tempo o di mezzi, per pigrizia o disinteresse, fanno cattiva informazione. E spesso e volentieri, a farne le spese sono i fenomeni sociali dell’Italia di oggi. Primo in lista, per il danno recatole: l’immigrazione.
Proprio su questo hanno parlato giovedì 20 gennaio a Modena nell’iniziativa “Comunicazione e diversità: Le parole della paura, le parole della solidarietà”, organizzato da Sinistra e Libertà, Gerardo Bombonato, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna, Anna Meli, Responsabile area Diritti di Cittadinanza del COSPE e Daniele Barbieri, giornalista di Carta e Manifesto.
I migranti nella notizia
I migranti fanno notizia, ma generalmente nella cronaca nera e se rientrano tra gli aggressori. Non si può dire lo stesso se sono loro a subire. Roma 2005, in una lite per un carrello muore una persona e altri due rimangono feriti. Messina 2010, in un agguato in cui vengono sparati centinaia di colpi muore una persona. Due notizie finite nel dimenticatoio dei mezzi di informazione già prima di nascere, semplicemente perché le vittime erano migranti. Nel primo caso il morto e uno dei feriti erano nigeriani, nel secondo romeno. Due notizie a distanza di 5 anni una dall’altra, a dimostrazione del fatto che la situazione non è affatto migliorata. E a scovarle è stato Daniele Barbieri che cura sul mensile “Come Solidarietà”, la rubrica “Notizie sparite e notizie sparate”. Perché, come dice Barbieri: “se spariscono le notizie in cui gli immigrati sono vittime, ma vengo esaltate, esagerate, strillate e sparate quelle di cui sono colpevoli o presunti colpevoli”, il quadro che ci viene reso è incompleto e non corretto.
Altre volte succede che la notizia a livello nazionale e locale venga riportata diversamente. È successo nel caso di Emmanuel Bons, pestato a sangue dai vigili urbani di Parma ed etichettato come “negro”, parola scritta bianco su nero sulla busta dei suoi indumenti. Lo racconta Gerardo Bombonato. “Mentre i giornali nazionali riportavano la vicenda in maniera molto indignata, i giornali locali di Parma, appoggiati dal sindaco e dai vigili urbani continuarono a registrare una chiusura indecorosa sull’episodio”. Invece quella delle notizie “che montano” nel caso in cui la vittima è italiana, sembra essere una prassi comune del giornalismo di oggi. È sempre Bombonato a ricordare una delle più significative: il caso Reggiani, la signora uccisa a Roma nel 2007 da due romeni. All’inizio, la notizia passa quasi sotto silenzio, perché si pensava che la vittima fosse rom. Invece quando si scopre un paio di ore dopo che era italiana, la notizia “è montata”, insieme alla campagna denigratoria contro i rom. Poi su questa vicenda prese piede anche un disegno di legge mai convertito per attribuire ai prefetti il potere di espellere i cittadini comunitari per ragioni di sicurezza e l’attuale sindaco di Roma Allemano ci ha costruito la sua campagna elettorale.
La provenienza dei “delinquenti”
Dall’altra parte, un vizio ricorrente del giornalismo italiano sembra essere il marcare la provenienza di chi commette un reato se si tratta di un non italiano. Ed è solito trovarsela già nel titolo, ad uso e consumo delle nostre paure sul “diverso”. Ma come sostiene Barbieri negli altri paesi è vietato evidenziare la provenienza perché non è positivo. L’Italia è uno dei pochi paesi dell’UE ad avere questa pratica. Bombonato lo definisce uno dei peccati maggiori del giornalismo italiano e non risparmia affatto la categoria: “i giornalisti hanno inventato un nuovo reato che non esiste neanche nell’ordinamento penale italiano che è il reato etnico”. Soprattutto nei titoli appare la nazionalità, un elemento che non avrebbe alcun senso. In altre parole, si calca la mano sulla provenienza, come se fosse un fatto rilevante per il reato. Ma “i delinquenti sono solo dei delinquenti, non hanno né colore né nazionalità”. Parole condivise anche da Anna Meli che racconta come negli anni “la nazionalità” sparata nei titoli ha avuto ripercussioni negative nella vita quotidiana delle persone. Esperienze che Meli ha vissuto in prima persona, già in uno dei primi progetti sperimentali sui media multiculturali. Tutte le volte, colleghi ed amici arrivavano in redazione mostrando i titoli dei giornali, preoccupati delle conseguenze. Del tipo “Oddio, adesso dovrò di nuovo giustificarmi quando vado a prendere mia figlia a scuola”. Il linguaggio giornalisticoUn altro aspetto importante è il linguaggio utilizzato dai media nella rappresentazione dei migranti, che può essere intenzionale o disinteressato. Due cause differenti dallo stesso effetto: generare e alimentare paura e diffidenza. Come fa notare Bombonato, il mestiere del giornalista è fatto di parole e “non si impara ad usarle”, ricorrendo spesso a luoghi comuni, a frasi fatte senza pensare al loro peso. La Carta di Roma, il protocollo deontologico sui temi dell’immigrazione, cerca di porre riparo al problema fornendo anche un glossario di 6 termini politicamente corretti sulla condizione sociale e giuridica dei migranti. Molte parole come “clandestino” o “extracomunitario” hanno assunto nell’immaginario comune una valenza negativa. I giornalisti non chiamerebbero mai “extracomunitario”, un cittadino americano o uno svizzero se commettono un reato, anche se per la normativa comunitaria lo sono. Invece, “clandestino” è una parola che non esiste neanche nel diritto internazionale. Come si fa a definire una persona clandestina quando è ancora nelle acque internazionali, prima ancora di sapere i motivi per i quali emigra?Nella scelta del lessico viene operato in maniera più o meno consapevole dai stessi giornalisti, dice Bombonato, un’opera quotidiana di disumanizzazione, alimentando l’allarmismo sociale. Il lettore di un giornale vuole essere rassicurato nelle sue convinzioni più che essere aperto al confronto. Spesso non c’è il tempo per fare riscontri, verifiche e per cercare di comprendere le ragione di certe storie e situazioni.
Giornalismo in crisi
Eppure l’informazione sull’immigrazione deve fare i conti anche con una crisi sistemica del giornalismo. Come sostiene Bombonato, l’Ordine dei giornalisti avrebbe senso e valore se si fonda su due pilastri: la formazione e la deontologia. Di formazione non se ne fa abbastanza, invece nel secondo caso il giornalismo non rispetta e in buona parte non conosce le regole che si è dato. Poi, è la precarietà a far da padrona. Un esercito di 25,000 precari, meglio conosciuti come “free lance”, che sono senza tutele, senza diritti, sfruttati e pagati 3 – 4 euro al pezzo. E senza di loro non sarebbe garantita l’esistenza della maggior parte dei mezzi di informazione. Uno dei malanni del giornalismo rimane anche la sovrapproduzione di cronaca nera. È Barbieri a soffermarsi su questo aspetto, riportando alcuni dati apparsi sull’ultimo Dossier Caritas/Migrantes. Si tratta dei reati in genere e non solo su quelli commessi da immigrati: il Tg1 riporta il doppio dei reati rispetto a quello spagnolo e 20 volte di più rispetto alla tg di stato tedesca. Inoltre, i giornalisti non si occupano dei veri problemi ma trovano dei capri espiatori. Per Barbieri, in Italia non si può dire che il problema è la ricchezza e non la povertà. Non si può parlare dell’inquinamento perché quello è un’inserzionista, non si può parlare dello scandalo dei soldi rubati perché quello è cugino dell’assessore. Quindi, facciamo l’apertura su un immigrato che ruba una bici. Invece Meli, ha voluto sottolineare come la mancanza di spazi nei mezzi di informazione, ha spinto molti immigrati ad organizzarsi per auto-ra
ppresentarsi e partecipare attivamente al discorso pubblico. Quindi da un lato sono nati media fatti dagli stessi cittadini migranti, dall’altra è nato un nuovo gruppo di specializzazione all’interno della Federazione nazionale della Stampa, l’ANSI. Fare informazione nel locale
Oggi è possibile parlare di immigrazione a livello locale, senza dover far ricorso alle informazioni delle forze dell’ordine. Come ribadisce Meli, la rappresentazione dell’immigrazione sui media è incentrata sulla cronaca nera. L’immigrazione viene visto come un blocco monolitico e un problema, quando invece la realtà è molto variegata come dimostrano anche i dati del Dossier Cartias/Migrantes. Dal contatto che il giornalista riesce ad avere con la realtà dell’immigrazione dipendono anche la sua sensibilità ed esperienza verso il fenomeno. Meli l’ha notato nel confronto tra giornalisti spagnoli, greci e del modenese, uniti insieme dal progetto “Dialogue” promosso dal Comune di Sassuolo. Da questo progetto, è stato elaborato anche un vademecum per offrire spunti su come allargare la prospettiva sull’immigrazione nel lavoro quotidiano. Bastano alcuni accorgimenti semplici come l’attenzione al linguaggio, una maggior attenzione verso i lettori che non sono più solo autoctoni. Per Meli, si dovrebbe fare uno sforzo grande per far partecipare il mondo dell’associazionismo immigrato. Far sentire punti di vista diversi sulla realtà di tutti i giorni è molto importante. Inoltre, “bisogna collaborare tra istituzioni, mezzi di informazione e associazionismo, per cercare di trovare una via diversa a una convivenza pacifica e rispettosa anche nei territori”. E i media hanno un ruolo fondamentale in questo percorso.
Di fatto, “la costruzione della società multiculturale è uno dei argomenti più interessanti, forse il più interessante di questi anni”. Parola di Francesco Rosetti, giornalista di “Modena Radio City” e “Vivo Modena”. In una città come Modena, è stimolante osservare questo fenomeno da tanti punti di vista. Quello sociale: sarebbe interessante curiosare nei posti di lavoro. Quello economico: l’imprenditorialità dei migranti è una realtà molto vivace ma non si sa nulla. Quello culturale: studiare le seconde generazioni. Un esempio concreto? Ci sono molti cittadini tunisini a Modena, alcuni hanno avviato attività economiche, anche export-import con la Tunisia e magari adesso se la passano male. Ma se i migranti non riescono a trovare degli spazi dove parlare di se, cosa può fare l’informazione locale? Ci ha pensato la redazione della Rivista “Modena Internazionale”. Come racconta Marco Turci, suo direttore editoriale, la rivista è nata tre anni fa per parlare dei temi della cooperazione internazionale, ma successivamente è stata indirizzata verso una maggiore analisi della realtà modenese per quanto riguarda l’immigrazione. Da una parte, per dar voce ai migranti, farli parlare di sé, dell’esperienza di migrazione. Dall’altra parte, per stabilire dei legami con loro, perché non c’è ancora uno scambio in una società che vuole praticare la convivenza.
Raccogliere le loro storie, sostiene Turci, ha un senso sociale ma anche storico perché servirà per capire nel futuro come è avvenuto questo processo. Curare e capire da tutti i punti di vista questo processo diventa fondamentale. Quindi anche le problematiche di comunicazione e razzismo tra gli stranieri stessi, quella della chiusura e o di eventuali ghettizzazioni. Il ruolo dei mezzi di informazione è molto importante, ma non bisogna mai cadere nella voragine della cattiva informazione. E Turci legge un trafiletto apparso sulla stampa locale che fa una pessima lettura politica dei dati sui bambini nati a Modena. Dei 3500 neonati, il 10-15% hanno almeno un genitore cittadino straniero. Tanto basta per poter costruire tesi ridicole sul futuro dell’Italia dal titolo “Boom di stranieri, no al multiculturalismo”.