Parto da lontano, dal dopo. Era vigilia di guerra e nel mondo si preparavano imponenti mobilitazioni, notevoli sia per la grande partecipazione che per l’estensione geografica del dissenso, una moltitudine estesa ben al di là della rappresentanza e delle istituzioni politiche tuttora esistenti.
Addirittura il New York Times, era il febbraio del 2003, si spinse ad annunciare in prima pagina l’emergere di una nuova superpotenza accanto agli Usa, l’opinione pubblica globale.
Come sappiamo, le mobilitazioni che unirono Tokio a Mosca, Rotterdam a Parigi e Firenze ad Oslo in un unica richiesta di pace rimasero inascoltate e non scalfirono in alcun modole determinazioni belliche dei governi allora in carica. Di quel periodo ricordo un’enorme manifestazioni a marzo quando la guerra in Iraq era già cosa fatta e le parole conclusive di una lettera che un famoso scrittore sudamericano rivolgeva ai potenti della terra.
In quella conclusione si evocava all’importanza delle parole che sebbene inascoltate, generavano valore anche e solamente per essere state pronunciate.”Voi siete otto noi sei miliardi” era uno dei tanti slogan che campeggiavano verso Genova, una città che in quei giorni del 2001 divenne capitale involontaria di un mondo migliore.
Per un tempo breve, troppo breve prima che macellai in divisa orchestrati magistralmente stuprassero definitivamente la nostra fragile democrazia, torturando persone, annichilendo leparole. Perché a fondo e a dispetto degli “speciali” odierni contenuti nei “grandi giornali” che narrano solo le storie di ordine pubblico, di violenze e gli scontri, a fondo c’era dell’altro.
La storia del mio Paese, della sua Repubblica è costellata di non-detti, piccole cesure inconfessabilimute e al tempo stesso assordanti che è bene lasciare nel limbo, sangue altrui che ripaga la nostra quiete quotidiana. Cominciarono fin da subito in una provincia arbëreshë vicino a Palermo a Purtelja së Jinestrës per l’esattezza, per poi continuare in una catena di orrori infinita: Bologna, Piazza Fontana, Italicus, Via D’Amelio ecc. Anche Genova rientra in questa catena ma è anello diverso, troppo piccolo e al tempo stesso troppo grande per congiunzioni ancora tutte da delimitare.
Il movimento dei movimenti così come fu definito era soggetto nuovo, senza precedenti nella storia. Era il primo movimento che non chiedeva nulla per sé stesso, voleva solo giustizia per il mondo intero tanto per parafrasare Susan George.
L’anima era caleidoscopica, in perfetto stile Social Forum, e le energie di cui poteva disporre andavano delle suore cattoliche agli antagonisti dei centri sociali, dai boy scout ai sindacalisti e ancora ambientalisti per la green economy accanto agli attivisti del commercio equo e solidale, il collante era la critica profonda alla globalizzazione liberista, lo stesso mostro che oggi, a dieci anni di distanza, produce i suoi nefasti scricchiolii tra debito, consumo dell’ambiente e sussunzione di esseri umani.Allora gli attenti sguardi “benpensanti” danzarono in un limbo tra la derisione e la demonizzazionee, complici i mezzi d’informazione occidentali, quel movimento molteplice venne liquidato e ridotto al singolo appellativo “noglobal”.
Nel 2001 le critiche alla finaziarizzazione del capitalismo, la green economy, la TobinTax facevano storcere il naso prima ancora di essere bollate come ridicole. E oggi? Oggi sono sulla bocca dei capi di stato (con la s minuscola oramai) dinamiche identiche e inascoltate. Era inopportuna la parola pace levatasi a gran voce in tutto il mondo nel 2003?Ma cosa c’era allora dietro Genova, dietro a quel G8, infinito scialo che violenza rabbia e repressione sotterrarono?Il G8 di Genova aprì molto prima con la forsennata campagna di “notizie” che precedettero l’appuntamento miranti alla partecipazione – secondo queste ultime i manifestanti sarebbero arrivati a Genova addirittura muniti di sacchi con sangue infetto – perché, in realtà, arrivarono soltanto centinaia di migliaia di persone e mai un vertice internazionale avrebbe compiuto il proprio circo sotto una protesta così ampia.
La prima manifestazione l’aprirono i migranti, 50.000 persone che rivendicavano i diritti degli immigrati tra gruppi di stranieri e rappresentanti della Rete Lilliput.
Clandestini di mezzo mondo in marcia per le strade rivendicando il loro esistere tra la festa e i saltidel concerto di Manu Chao che avrebbe chiuso la giornata alla faccia delle frontiere, Genova fu la capitale involontaria di un mondo migliore.
Per breve tempo perché i lugubri presagi, che tutti annusavano tra la costruzione della zona rossa e l’inasprirsi delle dichiarazioni, presto fecero di Genova un luogo maledetto.
A Genova non andai ma ricordo perfettamente la sorda rabbia che si provava davanti al televisore, la paura muta della scuola Diaz e di Bolzaneto ma soprattutto la distanza incomunicante che mi separava dal chiacchiericcio della mia città, che non capiva, si adeguava abbandonando se stessa e il Paese ad un futuro di illegalità diffusa.
Certo anche in quel caso, soprattutto in quel caso.
Perché le verità sono documentate. Scritte in innocue sentenze cadute in prescrizione o trasformate in leve per facili promozioni. Ma ci sono e basta volerle vedere.Non ho intenzione di soffermarmi sui fatti, per quelli basterebbero le dichiarazioni di Amnesty International quanto ridare corpo, nel mio piccolo, a quelle idee e parole che nelle strade di Genova vennero massacrate. Quelle stesse che all’oggi, anche se solo in parte, vengono condivise dai più.
Spaventa come una mattanza architettata possa aver ridotto Genova e quel G8 ad uno scorrere infinito di immagini violente. Forse quella così ampia partecipazione contro un vertice internazionale, era la ragione per la quale il governo italiano – e probabilmente non solo quello – decise di fare i conti una volta per tutte con i “noglobal”, soffocando la protesta nel sangue di piazza Alimonda perché Genova, in quei giorni, riuscì a mantenere una doppia dimensione globale e nazionale all’interno di un’unica sconfitta.
In questo contesto la figura un Fini che scorrazzava all’interno della questura nei momenti più “caldi” fa il paio con l’assenza di rilevanti movimenti di protesta nei successivi vertici del G8, dopo Genova nulla fu più come prima.
Quella città fu sigillo, così come quell’anno nefasto nel suo settembre avrebbe consegnato al mondo un decennio di sospetti e paure.
Piazza Alimonda segnò la sconfitta. Alla Diaz e a Bolzaneto andò in scena la crudeltà dell’annichilimento.
Di quel ragazzo, Carlo, non so nulla se non per quel poco o tanto che ho letto.
Anni dopo però, in una splendida manifestazione a Vicenza mi capitò di “conoscere” il padre, camminammo fianco a fianco solo per brevi momenti, nessuna parola, solo un reciproco sguardo prolungato che, nei miei occhi, si tradusse in un semplice “mi dispiace” appena prima di un altro scambio, questa volta di sorrisi. Reciproci.
Genova è già oggi come anche ieri perché quelle stesse dinamiche di potere, tanto sfrontate quanto più incerte, ci hanno accompagnato, volenti o nolenti, in questi dieci anni.
Il logorio più penoso però è quello compiuto dal silenzio e da chi questo silenzio lo ha incoraggiato, istituzioni e partiti politici in primis, quegli stessi che una commissione d’inchiesta su quei giorni l’hanno osteggiata con forza.Per questo risulta un dovere quello di ricordare e non solo per il decennale, perché la memoria éesercizio permanente, che nessuno farà mai al posto nostro, mentre le conseguenze dell’oblio sono un prezzo pagato sempre dai più.
Chi era a Genova sa. Chi in questi anni ha vissuto le tante manifestazioni a difesa del nostro ordine costituzionale anche, conoscono. Gli altri? #ioricordo