Negli ultimi anni, con l’avvicinarsi delle feste natalizie e di fine anno, si riaccende in Italia il dibattito sul rispetto delle altre culture presenti nel paese. Sembra che si sia trasformato in un appuntamento fisso per telegiornali e giornali, con tanto di sondaggi tra i lettori/telespettatori, ormai televotanti per definizione. Perché in Italia, il televoto è diventato più importante del voto vero alle urne.
Una delle notizie di quest’anno relativa al tema in questione, riportata lo scorso 14 dicembre su milano.repubblica.it , narra di una scuola materna della città meneghina in cui ”ci sono tanti figli di genitori non cristiani e per questo le maestre decidono di non fare la tradizionale festa di Natale aperta alle famiglie.
Ai bambini, per di più, non saranno insegnate canzoni su Gesù e Betlemme, ma solo quelle che parlano di renne e di Babbo Natale”.
Da manuale, è scattata immediata l’indignazione deigenitori “italiani”, che sostengono: “la festa di Natale non fa male a nessuno, anzi aiuta l’integrazione”. In questo quadro cosi pieno di tutti i luoghi comuni, ovviamente si aggiunge anche l’invito del quotidiano la Repubblica ai lettori/televotanti:
“Voi cosa ne pensate?”. Sul web scattano le reazioni di sempre, da una parte gli intransigenti tradizionalisti e dall’altra parte i terzomondisti convinti che combattono per i diritti degli immigrati.
Ma in tutto questo gli immigrati cosa c’entrano?
Assolutamente niente. Non mi risulta che ci sia stata una richiesta da parte dei genitori immigrati che chiedano di abolire i festeggiamenti per il Natale, e tanto meno mi sembra che dei bambini si possano rifiutare di partecipare.
È un’iniziativa degli insegnanti che combattono per una scuola laica, e che dovrebbero avere il coraggio di dirla, affermarla e difenderla come posizione, senza l’alibi della sensibilità degli immigrati. Forse è arrivato il momento di sentire, visto che con il voto non si vogliono consultare, anche i diretti interessati, gli immigrati.
Innanzitutto ci sono moltissimi immigrati cristiani (rumeni, bulgari, polacchi, filippini, una parte degli albanesi, ecc), atei, agnostici e mussulmani. Cosi come esistono le stesse categorie anche per gli italiani. In Italia ci sono sempre state le lotte di molte parti sociali per rendere il paese più laico possibile.
Le polemiche sulla presenza del crocifisso in aula esistono da quando è stato messo il crocifisso stesso, quindi ben prima che arrivassero gli immigrati, quindi per favore non attribuiteci cose che non facciamo, ne in positivo e neanche in negativo.
Qualche tempo fa, un italiano convertito all’Islam, ha spopolato in tutti i talk show con le tesi della rimozione del crocifisso. Non ho memoria di qualche immigrato che lo abbia chiesto cosi tenacemente.
Qualche tempo fa, il governo italiano e i parlamentari che gli immigrati non contribuiscono ad eleggere in quanto non cittadini, hanno stanziato ulteriori fondi per le scuole private, prevalentemente di gestione religiosa, mentre continuano a tagliare in continuazione i soldi alla scuola pubblica e all’istruzione.
E il problema sta proprio qui. Se fatte un sondaggio tra le famiglia immigrate, sicuramente non scoprirete che li da fastidio l’ora di religione (non obbligatoria tra l’altro) e neanche che sono disturbati dai festeggiamenti del Natale.
Scoprirete una cosa molto scontata, cioè che le famiglie immigrate, cosi come quelle italiane, hanno bisogno di più asili nido, di una scuola che funzioni meglio, di spazi doposcuola per agevolare le mamme che lavorano, cioè scoprirete la banalità dell’essere normali.
Queste iniziative scatenano il solito polverone mediatico delle frasi semplici dal grilletto facile: “se vogliono rovinare le nostre tradizioni, se ne tornino a casa loro”, oppure, “se noi non cantiamo le canzoni di Maometto in Egitto, ci tagliano la testa” e via dicendo frasi di ogni gravità e tipologia. In un clima, dove gli immigrati sono già abbondantemente discriminati, forse sarebbe il caso di non infilarli anche nelle diatribe che dividono questo paese dal secondo dopoguerra ad oggi.
Quindi chiunque, in buona fede, si sente il dovere di sapere da che cosa mi deve difendere, lo pregherei di non farlo a mio nome, a meno che io stesso non lo abbia delegato. Not in my name.