“‘Shoqe’, c’è da firmare. Una raccomandata per voi dall’Italia!”– tornò a ripetersi la frase del postino del mio quartiere, Tirana centro, quella frase così gradita, tanto gradita a quei tempi, quanto al contrario oggi, risultano invece sgradite “le visite”ed i richiami dei postini, soprattutto per le varie bollette che riempiono attualmente le cassette postali.
Tirana, anni ’80.
Era da un po’ a quella parte che, la censura, a noi famiglie miste italo- albanesi, residenti in Albania, iniziava a risultare più clemente, ci venivano concesse le lettere e le cartoline dai parenti in Italia, e non solo: i pacchi che spesso loro ci mandavano con vari contenuti, tra cui, indumenti e diversi capi d’abbigliamento.
Loro conoscevano bene e seguivano a distanza la realtà albanese, politica ed economica del periodo della dittatura, erano a conoscenza della carestia di tutti i campi e sapevano anche che dei bei vestiti arrivati dall’Italia, per una famiglia che viveva quei tempi in Albania, con tutte le imposizioni e restrizioni politiche, sociali, economiche ed in cui – a proposito dell’abbigliamento – il termine “moda” era considerato un tabù, avrebbero costituito una vera gioia, anche se non proprio una necessità. Non proprio una necessità per il semplice motivo per cui l’abbigliamento non mancava di certo, ma a mancare erano le varietà dei tessuti e modelli, di materiali, colori, tagli, disegni e fantasie per queste linee del vestiario, per cui, l’abbigliamento che arrivava dall’Italia – e da qualsiasi altro paese straniero – costituiva una vera eccellenza.
Già: la persona che usciva fuori dai canoni del vestiario comune, di quello “comune” nel vero senso della parola, collegato anche all’uniformità del modo di vestire per tutti gli albanesi, si faceva notare immediatamente.
“Veste straniero, forestiero..”– “ Vishet me rroba të jashtme”, si usava dire in questi casi. Come dire oggi ad esempio: “Veste di oro e diamanti dalla testa ai piedi”..
Non si tratta di fare ironia o di scherzare su questo argomento, ma era veramente questo il modo in cui si faceva distinguere dalla massa, colui o colei che vestiva o portava degli abiti che venivano da fuori, era così che veniva amplificato l’effetto che questo vestiario diverso scaturiva negli occhi della gente. E non sussisteva chiaramente pretesa di marchi, non conoscevamo la rilevanza e la differenza di un marchio straniero oppure di un altro, potevano essere anche abiti delle bancarelle o tra quelli meno cari venduti dall’altra sponda del mare. Non importava! Quei abiti erano unici e particolari!
Tra l’altro, profumavano di “mare”..
”L’abito non fa il monaco”!? L’efficacia di questo detto – non saprei oggi – ma a quei tempi devo dire non esisteva. “Faceva, eccome il monaco” quel modo di vestire, anticonformista, diverso dall’abbigliamento che la Grande Sartoria Statale offriva..
Qui, ci terrei ulteriormente, come in un altro pezzo che ho scritto su un argomento simile a questo, a riportare la bravura dei nostri sarti. Loro erano molto preparati e confezionavano dei bei vestiti su misura, certamente, quando ci potevamo permettere qualche bella stoffa, del resto ci si doveva accontentare degli abiti venduti nei magazzini statali, nella Grande “Mapo”.
Torniamo al richiamo del postino ed all’invito a presentarci all’Ufficio Postale, quello Centrale della Capitale, Tirana.
“Un pacco postale era arrivato dall’Italia!” In vista del mio compleanno, solitamente arrivavano dei bei vestiti nuovi, ma non solo per me, per tutta la famiglia!
Grande festa per me, per tutti in famiglia ma non solo devo dire: siccome non usavamo ‘gioire’ in questi casi da soli, per cui vista la grave situazione ed il desiderio un po’ di tutti di vestire bene e con abiti stranieri, “të jashtme”, distribuivamo la roba un po’ anche a parenti ed amici.
Si ha idea della sensazione di possedere un paio di jeans, quando solitamente ti era concesso di vederli solo in qualche ritaglio da giornale straniero, e questo per giunta, conservato di nascosto..?
I tanto desiderati “Xhins” – “Jeans”!
Senza dimenticarsi che stiamo parlando degli anni ’80, i famosi jeans di quel periodo – per quei pochi che passavano i filtri ed arrivavano dall’estero – erano: rigorosamente a vita alta, solitamente “a sigaretta”, poi, il giubbotto di jeans con la pelliccia, la gonna corta di jeans, a vita alta anche questa, la salopette di jeans, ma da notare era il loro difficile accesso per l’uso da parte della gioventù albanese.
Non mi dimenticherei mai un’ esclamazione di mia nonna, la quale ai tempi figuriamoci, faceva anche fatica a pronunciare la parola “jeans”, tra l’altro quel periodo era anche alle prese con una nuova dentiera, per cui, le parole che diceva, prendevano anche una strana pronuncia, quelle in albanese intendo, immaginiamo quelle in un’altra lingua: “Xhins”- Jeans”!
“Figlia mia, e che saranno mai questi pantaloni, questa tela? Ai miei occhi sembrano solo abiti da lavoro, che più brutti non si può..oppure, tela da sacchi di trasporto merci..
Ecco, e non capisco tutta questa vostra ammirazione per questi indumenti..”
D’altronde la nonna, saggia com’era, anche questa volta – forse senza saperlo – non aveva avuto tutti i torti: essi erano nati proprio come indumenti da lavoro, sia nella vicina Italia, a Genova ed a Chieri – Torino, ma anche molto lontano da noi in Albania, in un altro continente, come l’America..
Arrivammo all’ufficio, ci presentammo davanti agli operatori delle poste, i quali ci dissero:
“Siete venuti per la roba che vi giunge dall’Italia, eh..?”
“Sì- rispose mia madre, siamo stati avvisati proprio da voi.”
“Questo è il vostro pacchetto, – dissero – mostrando lo scatolone di cartone, rigorosamente aperto e controllato in ogni angolo precedentemente..”
Iniziarono ad estrarre uno ad uno gli abiti, non senza curiosità – io di solito conoscevo già a memoria il contenuto dello scatolone, in quanto la mia zia dall’Italia mi mandava una lista e mi descriveva tutto – tra cui, una parte di solito, stranamente spariva ancor prima del nostro arrivo in posta, un’altra parte invece poteva finire nelle nostre mani solo se passava “ il test della dogana “, sul fatto se costituiva o meno un elemento decoroso che “meritava” di entrare e circolare – essere indossato – in Albania, oppure se era da considerare un’ infrazione alle regole ferree dell’etica consentita. Insomma, una selezione, un po’ per dovere, un po’ con l’intento di impossessarsi loro stessi della roba, che gli operatori postali ponevano..
E in questi filtri purtroppo, tanti abiti rimanevano ‘ingarbugliati’..
Tra cui, anche tanti “abiti da lavoro”, tanti famigerati jeans..
Di una maglia di ciniglia ad esempio, con su attaccata una semplice scritta sulla parte di davanti, l’impiegata delle poste, mi chiese ansiosa: “E questa etichetta, cosa significa? E’ in italiano? Come si traduce in albanese? Dimmelo velocemente perché la maglia non te la do, oppure, guarda un po’ come risolvo la questione, se c’è scritto qualche parola non consentita qua da noi..”
Intanto aveva afferrato una bella e grande forbice, e senza il minimo scrupolo, anzi, con l’orgoglio di eseguire alla lettera gli ordini dei suoi superiori, tagliò l’etichetta, facendo un buco nella bella maglia..
La maglia era di ciniglia e l’impiegata non mi lasciò nemmeno il tempo di tradurle la parola sull’etichetta – talmente grande il mio stupore di fronte alla sua reazione eccessiva che, – fissando la maglia ormai strappata e rovinata, le risposi: ”C’è scritto semplicemente ‘sabbia’..”
Ditemi voi se la scritta “Sabbia” – “Rërë”, avrebbe costituito un pericolo o avrebbe significato pubblicità – per che cosa!? – se io avessi eventualmente indossato quella maglia..
Erano invece tanti, forse quanti i granelli di “sabbia – rërë” nel mare, i sogni di un’intera popolazione che viveva isolata dentro una fortezza, di conoscere l’altra sponda del mare, con tutto ciò che di nuovo e di diverso portava, come: la lingua italiana, le usanze, il modo di vivere, perché no, il modo di vestire, in cui, quei famosi “jeans” da veri protagonisti, così come tante altre cose, da loro non erano proibiti..