Con l’articolo “L’Albania nelle pagine del Touring Club Italiano – In Albania. Cenno sulle comunicazioni albanesi” , abbiamo intrapreso un viaggio nelle pagine della Rivista Mensile del TCI, riscoprendo paesaggi dell’Albania di inizio ‘900, fissati in reportage di viaggio di giornalisti che si avventuravano nella scoperta del vicino di oltre Adriatico.
Il ciclo dei reportage dall’Albania pubblicati dalla Rivista Mensile, periodico del Touring Club Italiano, prosegue nel 1913 con l’articolo di Paolo Revelli “Scutari e l’Albania”
il quale esordisce con la descrizione del paesaggio imponente che si presenta al viaggiatore man mano che l’orizzonte cittadino di Scutari si delinea in maniera nitida:
“…verso nord scintilla… il Lago di Scutari dalla mutabile riva orientale, e verdeggian le valli del Drin inferiore e della Boiana: l’emmissario del lago, cerca tortuoso l’inospite riva adriatica a SE di Dulcigno. A levante le chiese e i minareti di Scutari; più lungi il profilo arduo delle Alpi albanesi alte, in media, circa mille metri, fra le alpi illiriche, e il sistema del Pindo, che giunge a quasi duemila e duecento. Sul culmine, a circa 150 metri, le relique della fortezza serba di Rosafa dove la leggenda immaginò murata la figlia dell’architetto che così vinse la malla delle fate accanitamente distruttrici – ricordan la gloria di Stefano Dushan, lo “Zar dei Serbi, dei Greci, degli Albanesi” che nel 1336 allargo dalla macedonia alla Grecia i termini del regno di Rascia”
In poche righe Revelli racconta una città segnata dalla coesistenza di elementi geograficamente, culturalmente e storicamente diversi tra loro: chiese e minareti; i robusti profili delle Alpi e le verdi vallate di Drini e di Buna ed elenca gli eventi chiave nella storia della città: il duro assedio di “Scodra” e la sua fioritura come colonia romana, la furia predatrice dei Goti e l’impeto soverchiante dei Serbi, il lungo dominio veneziano interrotto dal momentaneo possesso ungherese, e la caduta sotto il turco nel 1477. Eventi stratificati nella memoria della città, che “…risorgon tenaci storie, immobili grandezze, alla memoria del viaggiatore, cosi come davanti a lui – nella città che sembra un aggregato di borghi sorti successivamente, dopo le grandi piene del Kiri, che la traversa – passan, ravvolti nei costumi dei loro avi, i fieri figli delle tribù skipetare”.
Questo susseguirsi di dominazioni aveva lasciato traccia anche nei cambiamenti che il nome della città aveva subito “…i Serbi han conservato il Vecchio nome di Skodra, mutato dai Turchi in Iskodra, e gli Albanesi il nome anche più antico di Skadar…”
Revelli presta attenzione anche alla descrizione delle condizioni idrografiche dei fiumi Buna e Drin, e degli effetti devastanti delle inondazioni del Kiri, che assieme alla mancanza di approdi sulla costa, distante appena 25 km “…non le hanno mai concesso di prevalere come e quanto sembrava prometter la sua posizione geografica. Tuttavia, sorta all’incrocio di strade che, dal Danubio e dal Egeo, tendono a Novi Bazar, “il nuovo mercato”, e scendon quindi all’Adriatico – se nell’antichità fu più nota Durazzo (l’antica Epidamnus, detta poi Dyrrachium, ove i pompeiani strinsero d’assedio Cesare) da cui partiva la via Egnatia risalente lo Scumbi, calante poi, per Ocrida e Ostrovo, a Tessalonica – già sin dagli ultimi secolo del medioevo si affermava il primato di Scutari al cui Sangiaccato appartengono più di due terzi della popolazione del Vilajet, valutata a duecentosettantamila anime, giungendo quella dell’intera Albania politica, vasta come il Piemonte, a ottocentomila, ossia a poco meno della popolazione della Sardegna.”
Lasciandosi alle spalle Scutari per proseguire il suo viaggio in Albania, l’autore provvede a fornire ai lettori una panoramica delle famiglie e dei bajrak più importanti della zona: “…presso la riva orientale del lago sono i Kastrati; più a nord gli Shkreli e i Clementi; nel cuore del Sangiaccato di Scutari, a sud dell’alto Drin, gli indomiti Mirditi ben noti per la loro confederazione tenace e per la fulgida gloria dell’eroe di Croia, che essi vantano figlio della loro tribù, benché il loro nome, che suona in albanese “i bravi”, non appaia in documenti anteriori al secolo decimosesto”.
Essendo l’articolo pensato ad una pubblicazione destinata a viaggiatori o aspiranti tali, non manca di fornire le coordinate fisiche del territorio che si sta esplorando. L’Albania quindi è “lunga poco più di quattrocentoventi chilometri a larga in media, un centinaio” e secondo Revelli non poteva dirsi propriamente una regione fisica, a causa dei confini non nettamente segnati nel 1913. Inoltre ancora più incerti risultavano i limiti della regione etnografica: verso il sud risultava più rappresentato l’elemento ellenico, mentre quello albanese era più esteso verso l’est nella vecchia Serbia, in Macedonia e in una parte della Tessaglia.
Non manca Revelli di offrire ai lettori anche una resoconto delle diverse teorie in circolazione sull’origine del nome Albania: “Il nome dell’Albania, che ha fatto fantasticare intorno ad una migrazione dalle terre della Caucasia meridionale, spetto, probabilmente, in origine, solo ad una piccola parte della regione, e fors’anche al solo territorio dell’Acroceraunia, abitato dalla tribù tosca dei Lapi e detto in dialetto ghegho ‘Arberia’. Esso appare per la prima volta negli scrittori bizantini, poco dopo il mille…” specificando che “…benché il nome di Albania fosse in origine esteso al solo territorio dominato dalle alte vette scoscese, e cosi spesso folgorate, degli Acrocerauni – certo è che il nome di Albanesi spetta, propriamente, da più di otto secoli, agli abitanti del monte, che diversità di vita e aspirazioni divide da quali della costa sulla quale sorge, a 85 chilometri da Otranto e 125 da Brindisi, Valona tanto più importante di Parga che domina l’ingresso del golfo di Arta”.
Si prosegue con la descrizione delle risorse naturali albanesi, in particolare delle distese forestali dell’Albania meridionale dove “…crescono pini ed abeti alla marina di Francia; ma vasti sono tuttora, quasi dovunque, i querceti e i boschi di frassino, ampia è nella Mirdizia la zona coltivata a sommacco, non rari i declivi di olivi nei dintorni di Parga, di Valona e di Alessio”, per continuare con informazioni sulle linee di comunicazione esistenti e quelle progettate come la ferrovia Valona-Salonicco, l’allacciamento tra San Giovanni di Medua e Scutari con le ferrovie serbe, e quello di Durazzo con la linea Manastir-Salonicco. Progetti che Revelli vedeva ancora molto lontani, anche se si esprimeva ottimista che un giorno “…una rete di strade carrozzabili permetterà a numerosi turisti di goder la bellezza selvaggia dei monti albanesi cui si aggrappan rare e pittoresche le case degli skipetari che forse ancora a lungo andran fieri del loro giustacuore scintillante, del phistan candido stretto dalla rossa cintura, dell’ampia giubba con le maniche fluttuanti a guisa d’ali.
Nel suo itinerario di viaggio, l’autore trova segni della sopravvivenza della lingua e delle memorie d’Italia, ma rilevava il fatto che nonostante i collegamenti dei piroscafi della compagnia “Puglie”, gli scambi commerciali con l’opposta riva salentina risultavano scarsi e anche “…se a Scutari e altrove sorsero scuole italiane lodate da qualche straniero pel loro carattere pratico che profondamente contrasta con quello delle scuole gesuitiche favorite dall’Austria, l’opera italiana in Albania non ha certo l’estensione, ne l’efficacia che le supponeva, nove anni or sono, Gastone Routier, quando scriveva che l’Albania sarebbe diventata colonia italiana”.
Revelli osserva le caratteristiche del rilievo del territorio albanese “…aspra di monti, rotta a valli profonde in cui spumeggiano torrenti impetuosi e son rari i fiumi (il Drin, col Drin Nero che ne è il braccio superiore meridionale sboccante dal lago di Ocrida, è poco più lungo dell’Arno) – la terra degli Albanesi ha due sole ampie pianure: quella di Scutari ferace di mais, tra il lago, la Boiana e il Drin; quella più vasta del Semeni inferiore, fra i monti di Berat, copiosi di tabacco e la laguna di Caravasta…” ed evidenzia la varietà di forme, di prodotti, di clima di questa terra che accoglieva i “figli degli Illiri” che parlavano una lingua “troppo diversa dal greco perché possa ritenersi una variazione del primitivo idioma ellenico”.
Il pellegrinaggio albanese di Revelli si conclude con alcune riflessioni sulle contraddizioni insite nella società albanese, segnata da divisioni di carattere regionale, sociale e religioso. Osserva l’autore che “… i Gheghi, a nord dello Scumbi, e i Toschi, a sud non intendendosi tra loro, e sanguinose son le lotte fra le varie tribù spesso divise dalla religione, essendo i mussulmani in lieve prevalenza sui cristiani – e non tutti ortodossi, perché alcune tribù settentrionali serbaron fede a Roma, al tempo dello scisma” ma nonostante ciò il nome di Scanderbeg era “…la forza secolare che li accomuna ed ora li stringe contro Montenegrini, Serbi, Bulgari, Greci che lor vorrebbero contender la patria…”.
Quindi nel desiderio di difendere la propria patria dalle mire espansionistiche dei vicini balcanici, si identificava la ragione dell’aver accettato di appartenere all’armata turca “…perché ciò significa difender la propria terra, riottosi invece ad accorrere in difesa delle provincie d’Asia, alle quali nessun interesse di patria comune avvince questi indomiti travolti solo dalla passione d’aspra libertà in vedetta sui culmini”.