Diciamocelo, il più delle volte crediamo di saper cose che neanche immaginiamo. Tu chiedi ad un italiano di raccontarti di Roma e ti parlerà del Colosseo ma, non della sua storia. Chiedi ad un egiziano delle piramidi e finirete per parlare di Cleopatra. Domanda ad un albanese dell’Albania ed immancabilmente parlerete di Tirana. L’origine non contesta il sapere.
Ci hanno dato larga prova il 12 giugno scorso a Modena, durante l’incontro pomeridiano “L’Albania, passato, presente e futuro di un popolo”, Antonio Caiazza, giornalista e scrittore, autore del libro “ In Alto Mare”, Serena Luciani, regista e scrittrice, autore del romanzo “Terremoto a Tirana”, Paolo Muner, giornalista oggi, ieri ufficiale della marina in trasferta per 3 anni in Albania e il poeta albanese Visar Zhiti, carcerato del regime comunista e vincitore dilustri premi oggi, nonché Ministro della Cultura dell’Ambasciata Albanese in Italia.“Porti Cittadini”, culture in crescita tra Albania ed Italia. Non a caso Pietro Tarozzi amò questo titolo dal primo istante che gli passò per la mente, ma né lui, né Olti, Darien e gli altri avrebbero potuto immaginare quanto sarebbe stato vero. Muner, scomodo nel ruolo del moderatore, inizia subito a parlare dell’Albania che ha incontrato la prima volta. Quella nelle mani del dittatore Hoxha, chiusa al mondo e sempre infelicemente diffidente. Un Albania che la incuriosì al punto di renderla oggi oggetto di studio della storia e della sua lingua.“ Fatos il camionista…” – leggendo questa riga da “In alto mare” che passa la parola ad Antonio Caiazza. Un uomo innamorato dell’Albania. Fin da adolescente ascoltava radio Tirana e si poneva domande sul perché di quella voce sempre telegrafica dell’annunciatrice.
Caiazza parla alla platea con gli occhi puntati su tutti, dritto negli occhi, uno alla volta. Sa quello che dice. Nel suo studio sull’Albania, non si è fermato a leggere, anche perché, ciò che trovava non era mai esaudente. Caiazza, l’Albania la conosce. Conosce i suoi trascorsi, le sue sofferenze ed i sorrisi gratuiti della gente semplice, ma anche i piccoli dei primi anni ’90 che lo inseguivano chiedendoli un BIC’ ( nota marca di penne) Conosce le sue vie e ne pronuncia le lettere. Conosce le usanze e ne gustava il caffè. Conosce la sua gente, di nord – sud – est, ciò che li unisce e li divide, ciò che amano e ciò che odiano ma soprattutto ha saputo rispettarla senza una netta ragione e conquistarsi i suoi 25 amici albanesi.
Il suo è uno studio più lungo di un ventennioalla scoperta della magica Albania. S’immagina ancora i nonni col bastone che addormentano i nipotini con i racconti delle leggende al posto delle favole.“Dov’eri?”, la domanda che Caiazza pose a Fatos, il camionista di prima, ricordate? Per molti, se non tutti della platea Fatos è solo un nome, qualcuno da qualche parte dell’Albania che Antonio Caiazza nel suo viaggio avrà incontrato. Invece, Fatos è il primo. Colui che aprì le porte verso Europa, che insieme ai suoi 6 amici, poi diventati 5 perché uno di loro abbandonò all’ultimo il progetto, intimorito dal trattamento che il regime riservava a chi fuggiva. Quale progetto?! Infatti non ne avevano uno, Fatos il camionista e i suoi amici volevano solo andare, scappare via da quell’incubo che era diventato la loro casa, la loro Patria. Caiazza racconta quell’incontro riportato anche nel suo libro “In Alto Mare”con una frenesia più unica che rara. La platea lo ascolta in silenzio, non ne perdiamo una virgola. Italiani si, ma soprattutto albanesi che scoprono da un amico dell’Albania come Antonio, chi fu il primo tra i primi a dare il via al travolgimento del regime.“Io ero lì”, – risponde Serena Luciani alla domanda rivoltasi da Paolo Muner che vuole concentrarsi su quella data, il 24 giugno 1990.
Luciani eri lì, neanchè lei ha ben saputo il perché qualcuno dall’alto aveva deciso di mandarla in Albania. Le sue scelte erano state altre molto più lontane dalla vicina ma il destino la volle lì.“Sentimmoun botto fortissimo in Ambasciata, io non avevo captato alcun segnale particolarmente significante di apertura del regime perciò pensai a tutto tranne che a questo”. Un camion con alla guida Fatos ed i suoi amici si era diretto dritto al cancello della libertà, quello dell’Ambasciata Italiana a Tirana.
Ci parla della povera Albania, Luciani, della gente con gli occhi spenti e rassegnati e delle amicizie nate in silenzio. Come quella con Zhani Ciko, maestro e direttore d’orchestra dell’Albania, con il quale aveva scambiato tante parole riguardanti il lavoro per lavoro, ma, sapevano che nel loro silenzio privato erano diventati amici per sempre. Amicizie che oggi la portano a visitare sempre più spesso Albania per trascorrere giornate intere a parlare di progetti futuri di cultura come i tanti già organizzati con il maestro Zhani Ciko. “L’amore non era proibito e si aveva una larga espressione nell’arte. La vostra cultura è tra le più pure, è meravigliosa“. Ci tiene Serena Luciani a sottolineare e ricalcare la mano sull’arte che lo fece incontrare con i suoi amici albanesi e che ha ispirato il suo romanzo storico “Terremoto a Tirana”, intrighi, amori e spie al crollo del comunismo. “Il comunismo, – dice chiaramente senza molti giri di parole,- era uno dei più duri dell’Europa, ma come il fascismo nell’Italia, – lei che fascista di certo non lo è,- anche il vostro comunismo ha fatto cose di cui bisogna farsi un vanto. Bisogna conservare e custodire gelosamente. Come le leggende di cui prima parlava Caiazza uniche ancor’oggi sopravissute e raccontate ai piccoli nel mondo del economia frenetica”.
Muner non resiste, la domanda dov’eri la rivolge anche a Zhiti.Un uomo silenzioso Visar Zhiti, sembra cupo ma invece è solo riflessivo. Annota in silenzio tutto ciò a cui può dare una risposta e alla domanda di Muner si congela. Zhiti, era un ragazzo ventiduenne che amava scrivere poesie e leggerle tra gli amici. Credeva in quello che faceva e nella purezza di ciò che raccontava. Segnò il suo destino. “Il mio italiano, – dice,- è un po’ incarcerato”. L’applauso è spontaneo. Quest’uomo che se incontri per strada puoi confonderlo con la massa, ironizza sulla sua vita con un sottile sarcasmo che può appartenere solo alle grandi menti e cuori come il suo.“Sapevo, – continua Zhiti,- che Albania avrebbe avuto la sua occasione, ma, non avrei creduto di trovarmi ancora in vita. Nella mia Patria, Patria/prigione non ho mai avuto nessun segno di qualcosa in movimento”Nella sua Patria/prigione… era condannato tanto da fare in tempo a vedere anche i prossimi tre centenari. Era stato un revisionista, non sa ancora di cosa e né il perchéma era stato dichiarato un traditore. Scriveva, e per nostra fortuna scrive ancora, poesie d’amore.
La sua emozione traspariva chiara dalla sua voce, come ha voluto sottolineare Paolo Muner, toccato anche lui dal racconto del poeta, -“Conosco Zhiti ed il suo ottimo italiano, credetemi se vi dico che gli ho fatto una domanda che tocca molto nel profondo”.“Il passaggio dal comunismo alla democrazia, – continua Zhiti,- non è stato segnato da spargimenti di sangue come in altri paesi,- riferendosi alla classe politica di allora,-ma il sangue dei giovani albanesi ancora oggi riversa per le strade”. Racconta la sua vita che sapeva interminabile in carcere l’artista Zhiti, del suo compagno di cela prete incarcerato perché era prete. Parla di come anche lì, rinchiuso con la certezza delle chiavi perdute con l’aiuto del suo amico prete imparava i verbi del suo italiano incarcerato tra un passaggio e l’altro della guardia. In questo confronto di idee e di storie una parte importante viene dedicata al Kanun, la “legge dei senza leggi”. La dove non giunse lo Stato ci pensò il braccio destro dell’eroe indiscusso dell’AlbaniaSkenderbeg, Leke Dukagjini a mettere le regole della sopravivenza. Difficile oggi comprendere e accettare che possa ancora essere in uso, ma, invece c’è. Cambiato dalla transizione e dall’anarchia che governò Albania per anni, Kanun rimane un codice indiscutibile nel Nord dell’Albania e la dove vi sono trasferi
ti i suoi sudditi.“Quell’uomo mi poggiò la mano sulla spalla. Non era un saluto, né una spinta. Mi fece capire che se non volevo guai dovevo dirigermi altrove”.
Ll’uomo che Caiazza racconta anche nel suo libro, è lo zio di uno dei rinchiusi dal Kanun in un quartiere importante di Tirana. Una famiglia scutarina che si ritrova rinchiusa in casa per evitare che il sangue richiesto dal loro codice d’onore, illegale, venga preso. Una vendetta. Qualcuno ha ammazzato qualcun’altro e cosi finché respirano uomini in quella casa, la pace, non poggerà mai. Kanun è un culto, un opera da conservare gelosamente come dice Serena Luciani, appoggiata anche da Muner e Caiazza ma, non si può accettare che dei ragazzini passino la loro vita carcerati tra le mura di casa. La storia, quindi il Mito del Kanun, deve far parte del passato orgoglioso e trionfale dell’Albania e dei suoi combattenti, ma, deve lasciare il passo al futuro. Futuro che dalla nascita del Kanun ha attraversato più di cinque secoli.“Fatte in modo, – chiede Caiazza riferendosi ad Olti Buzi, l’editore di Albanianews,- che quei ragazzi, i quali si spera che abbiano internet in casa per ammazzare le giornate, possano sapere che voi ci siete e che farete ciò che potete per farli tornare liberi con la vostra informazione” Informazione che come mai prima racconta l’Albania, non la pittura. E’ ascoltando questi racconti che ti rendi conto di quanto hai perduto e di quanto porti dentro. Scopri di essere di più di quanto il mondo intorno a te vuole che tu sia. Chi già ama non ama più alla cieca e chi non ama inizia a sentire i primi canti.“Qui fuori e tra queste mura non ho incontrato alcuna bandiera albanese, benché dell’Albania si parla e si parlerà per tutto il giorno, ma, l’ho trovata qui con voi, in ogni parola che avete detto”, – epico il saluto finale del poeta Visar Zhiti.
[dalla sinistra: Giovanni Armillotta, Antonio Caiazza, Serena Luciani, Paolo Muner, Visar Zhiti]
“Porti Cittadini”, culture in crescita tra Albania ed Italia. Un viaggio meraviglioso percorso all’indietro per chi come me il comunismo l’ha conosciuto anche se di sfuggita. Una metà illuminante per chi come tanti non ne hanno mai sentito neanche l’odore. Consigliati ai giovani albanesi di ieri per ricordarsi chi sono e a quelli italiani per capire il perché di tanta confusione. Albanesi d’Albania e albanesi d’Italia. Quelli che l’hanno lasciata per migrare altrove e quelli che la conoscono perché qualcuno gliene parla. Culture in crescita. Esserci è stato un onore.