Nel 1941 – 1942 la Casa editrice DISTAPTUR di Tirana aveva progettato di pubblicare un libro del grande albanologo Padre Giuseppe Valentini S.
J., che raccogliesse i suoi articoli pubblicati sulla rivista del turismo albanese “DRINI”. Questo è il quinto articolo, SCUTARI.
A chi viene con noi dal sud, Scutari si presenta come chiusa da maestoso e terribile sipario: sulla sinistra scende verso di lei la brulla catena che partendo dal Rumia si ferma col Tarabosh sulla Bojana; a destra, lontano, il bel monte pittoresco di Sheldija, coronato di grandi e solitarie chiome di peri; il Barlezio l’aveva battezzato col curioso nome di monte Sardonico dalla antica Sarda episcopale che gli sta alle spalle; esso da nord e il Monte di S. Marco da sud col castello di Dagno in cima, custodiscono, come i piloni di una porta di ferro, lo sbocco del Drino in pianura; se il vile castellano Salamon non avesse abbandonato Dagno nel 1474 l’esercito turco non sarebbe potuto dilagare da questa parte.
Fra il Tarabosh e il Sardonico si stende una cortina di colli petrosi, il più alto che sembra posto di fronte a noi a sbarrarci il passo, con la sua sagoma squadrata e coronata di mura e i suoi fianchi a picco, giustificava l’esclamazione del sultano: l’aquila ha ben scelto il suo nido.
Nell’antichità e nel medioevo la città si stendeva per le pendici, guardata dal castello che le offriva rifugio in caso di guerra; all’epoca veneziana, siccome la guerra o almeno la minaccia era incessante, l’abitato da prima era rimasto deserto, poi addirittura diroccato perché non offrisse riparo agli assalitori che dovevano venir colpiti liberamente su per i fianchi lisci del macigno. Rifiorì poi in due secoli di pace fra i fichi e i melograni che verdeggiano al piede, finché nel secolo XVIII la malaria lo spopolò spingendo la popolazione nell’altra pianura che ora noi non vediamo.
Passato il ponte sulla Drinassa si sfila fra la collina del castello e la Bojana, salutati, come prima vedetta di Scutari dal moderno santuario della Madonna del Buon Consiglio, che si chiama qui Madonna di Scutari perché l’antica tradizione vi pone la prima sede di quella sacra immagina di Genazzano che come palladio della città se ne allontanò quando oramai fu segnata l’ora dell’invasione barbarica.
Brutta ma vivissima e interessantissima accoglienza a chi viene fa la città col suo vecchio bazar di catapecchie che si ostina a vegetare come erbaccia di palude in riva alla Bojana: ma che variopinti fiori si schiudono in quest’erbaccia i giorni di mercato! Stoffe e vestiti multicolori, ricami d’oro e d’argento sciorinati al sole o rutilanti nella penombra delle bottegucce farebbero trattenere il pittore fino a sera dimenticando la città.
Scutari se ne sta più il là in pianura, moderna d’età, antica di stile. A destra e a sinistra delle arterie principali, tutte in direzione sud-est-nord-ovest, si stendono i quartieri silenziosi, dalle stradette chiuse fra muriccioli da cui sporgono la testa, i cespugli di rose e di glicine, qui e là un muro chiuso fino al sommo coronato da un ampio sporto di tetto dalla travatura istoriata, e più in là un monumentale portone di pietra viva con minacciose feritoie per i nemici, due bei sedili a nicchia per i bravi e una tettoia per i benvenuti che vengono a battere alla porta ospitale.
Chi ci entra si trova in un ameno brolo fiorito o carico di more, di melograne, di grappoli secondo la stagione, intorno al bel pozzo di pietra come se ne vedono nei campielli di Venezia, ma dalle acque freschissime. La casa vi è nascosta tra il verde, sicché chi si fa a contemplare la città dall’alto dei colli la vede come un immenso verziere.
Le case, di pianta e talora anche del tipo della casa veneziana di campagna, son fatte di robusta muratura ma leggere di copertura, povere di comodità moderne, ma anche ricche di tutti gli agi e di tutto il fasto un po’ veneziano e un po’ turco del ‘700 di qui.
Fasto molto semplice e molto solido invero: tutto l’ornato dell’edificio è costituito di lavori in legno di pino scolpito; vasti soffitti degni di saloni principeschi del ‘500 italiano; infissi e armadi a muro e stipetti degni di sagrestie monumentali ora del ‘400 ora del ‘600 dei teatini. Ora sono scomparsi, ma prima i tappeti e i cuscini lussuosi e le caraffe di Murano completavano la decorazione.
Scutari, Scodra nella trascrizione latina semplificatrice, ma ora Shkodra nella pronuncia albanese, fu già la città degli Illiri Labeati che diedero anche il nome a vicino lago «palus Labeatis», e più tardi capitale di quei re Illiri che stesero il loro dominio da Codroipo nel Friuli fino ad Ambracia alle porte della Grecia.
Fu indipendente fino al secolo II a.
C. e da allora, vinto Gentio, fu, non colonia in punizione della sua resistenza, ma oppidum civium romanorum; numerosi ex legionari vi debbono esser venuti a coltivar le terre, e si può credere che abbiano costituito un pagus nella fertile pianura tra il castello e le colline dette ora di Bardhaj, prima che il Kiri la devastasse; oggi la località si chiama Rëmâj, nel ‘700 Remani o Romani; la popolazione fino al 1479 in città fu latina di lingua e di rito; per farsi un’idea della tenace tendenza latina in questa regione Prevalitana – come si chiamò nel tardo impero – di fronte alle influenze bizantine, basta osservare fra tutte le sottoscrizioni greche dei Padri del Concilio di Efeso quell’unica che vi spicca in tutte lettere latine: SENECION EPISCOPUS SCODRINAE CIVITATIS SUBSCRIPSI.
Poiché ecclesiasticamente Scutari va computata fra le più antiche sedi episcopali della cristianità e fu anche metropoli prima di perdere nel secolo VII tale grado a vantaggio di Dioclea e d’Antivari, ora, da mezzo secolo e più, a buon diritto l’ha riacquistata.
L’invasione slava del medioevo la coinvolse e ne fece per vario tempo l’appannaggio del principe ereditario di casa Nemanja che risiedeva a poca distanza dalla città, nel luogo che i veneziani seguitarono a chiamare «la corte dello imperador», nella regione che ora, forse in ricordo di tali principi che si adornavano del vecchio titolo illirico di Jupani, si chiama Cubani.
Col declinar di casa Nemanja nel XIV secolo, non si sa come, ne prese il retaggio in tutta la Zeta con capitale in Scutari la famiglia dei Balscia, venuta non si sa donde.
Comunque, fosse franca o serba o albanese, essa si tenne a cavallo fra il mondo slavo e quello latino, e quanto a Scutari, ne fece la capitale di quasi tutta l’Albania, spingendo il proprio dominio fino a Valona.
Ma il turco era troppo forte anche per una casa Balscia, e questa nel 1396 dovette vendere a Venezia «il nido dell’aquila», con Dulcigno, Drivasto e Dagno, salvo poi a tornare a domandarla con le armi e gli intrighi fino al 1422 quando l’ultimo Balscia si spense.
E Venezia vi rimase, dobbiamo dire generosamente perché pochi erano gli introiti (dogane e concessioni di privative sulle pescherie) e immense le spese per le fortificazioni, l’esercito e la politica d’avvicinamento dei signorotti del paese. Il Governo era affidato a un «rettore solenne» che portava il titolo di conte e capitano in tempo di pace e di provveditore in Albania in tempo di guerra. L’amministrazione comunale, il tribunale di pace e quello civile entro i limiti d’una data somma, erano affidati al Senato cittadino secondo le consuetudini della terra.
Dopo un terribile assedio nel 1474, e un altro più spaventoso ancora nel 1478, non vinta per forza d’armi benché stremata di uomini e di provviste, la fedele Scutari fu ceduta al turco per effetto della pace generale del 1479; la popolazione in massa si ritirò nella terraferma di Venezia dove si sparse in tutto il Veneto e popolò i recenti castelli di Gradisca e Palmanova.
Allora all’antica popolazione latina fu sostituita una colonia turca. Ma pian pianino, fin dal principio del secolo XVII, la popolazione cristiano-albanese dei dintorni cominciò a riaccostarsi alla città; parte si impiantò nei sobborghi di Casena al di là della Bojana; parte, senza mutar fede, prese servizio nell’esercito alla custodia del castello; parte si islamizzò e venne a rinsanguare la popolazione cittadina; poi nel ‘700, seguendo l’esempio del viceconsole veneto Duodo (originario albanese ritornato nella madrepatria) iniziò la nuova città a nord, nei sobborghi di Top-hana, Paruzza e Remani, traendosi dietro anche il resto degli abitanti vessati dalla malattia nell’antica sede.
Il Governo che per vario tempo veniva affidato ai sangiacbeghi e poi ai pascià inviati da Istanbul, finì per rimanere ereditario nella famiglia dei Bemolli di Peja (Ipek), che lo tennero per vari anni circa la metà del secolo XVIII, e poi dei Bushatli che si resero quasi indipendenti assumendo il pretenzioso titolo di Visir, ed estendendo il proprio dominio fino alla media Albania dove portarono la guerra alle altre famiglie beilicali del paese come i Toptani e i Tepeleni. Da allora il nome degli «scodrani», come li chiama il Foscolo, rimase per i Toschi nome di terrore. E anche col Montenegro si scambiarono non poche sciabolate e centinaia di teste rimasero in mano del nemico dall’una e dall’altra parte.
Intanto, già naturalmente ben collocata, e divenuta capitale di vasta regione, Scutari, specialmente per merito dei mercanti cattolici – chè i mussulmani pensavano solo allo jatagan – aveva visto rifiorire il suo commercio. Il governo di Istanbul dal 1831 ne fece la capitale di un vilajet e la sede di forti stanziamenti militari, sicché le carovane scutarine ebbero campo di spingersi fino al Mar Nero, e le borse dei mercanti fornitori si impinguavano, mentre i rappresentanti della bella industria locale andavano a vender tessuti cuoi e argenterie ad Ancona, Venezia e Trieste; fu forse l’epoca più pingue per la città.
Le guerre balcaniche, la ferrovia di Salonicco, il progressivo ritagliamento del retroterra a favore della Serbia e del Montenegro, fecero scomparir tutto e Scutari, diventata la vedetta settentrionale d’Albania dall’assedio montenegrino del 1912-13 in poi, rimase una delle più immiserite città dello sventurato paese.
In compenso, la sua cultura latina e nazionale, fiorente negli storici istituti diretti dai PP. Francescani e Gesuiti la rende pur sempre la città culturale silenziosa ma irresistibile nella sua influenza.
L’articolo di Padre Giuseppe Valentini S.
J. è stato pubblicato nel N. 5 – Anno II di DRINI – Bollettino mensile del Turismo albanese – Tirana, Martedì 1 luglio 1941
Le fotografie originali provengono dall’Archivio di Franco Tagliarini