Nel 1941 – 1942 la Casa editrice DISTAPTUR di Tirana aveva progettato di pubblicare un libro del grande albanologo Padre Giuseppe Valentini S.J., che raccogliesse i suoi articoli pubblicati sulla rivista del turismo albanese “DRINI”. Questo è il quarto articolo, ALESSIO.
L’abitato attuale che si stende tra il piede della collina e la sponda del Drino occupa il posto dell’antico mercato lungo il porto fluviale; più in là, in un’insenatura ora quasi tutta interrata, fra Alessio e l’attuale porto di S. Giovanni di Medua, c’era anche il porto marittimo, chiamato ninfeo.
La posizione è delle più favorevoli, strategicamente e commercialmente. Due buoni porti, sufficienti per le necessità degli antichi navigli, ben custoditi contro imprese nemiche dalle alture che loro sovrastano, retroterra ricco di prodotti agricoli (pianura di Zadrima) e minerari (territorio dei Pirusti, probabilmente l’attuale Medizia meridionale); strade importanti che vi fanno capo, una fluviale (il Drino), l’altra terrestre per Dagno (ora Vau i Dejës) dove si biforcava andando da un lato a Scutari, dall’altro su per la valle del Drino ad Apicaria (Puka) e Naisso (Nish in Serbia) e di là a Singidunum (Belgrado).
Non è quindi meraviglia che gli Illiri vi avessero collocata una di quelle caratteristiche fortificazioni che essi annidavano sempre sull’ultima altura allo sbocco di ogni valle, e non potrebbe certo meravigliare, che intraprendendo Dionigi il vecchio di Siracusa una politica imperiale adriatica, vi ponesse l’occhio e vi conducesse una colonia che fu poi fiorente e sontuosa.
Vero è che taluno potrebbe mettere in dubbio se la colonia dionisiaca sia questa nostra Lissos oppure Lissa nella Dalmazia e non senza buoni argomenti, non ultimo, benché negativo, quello che finora in Alessio non si è trovata una moneta dell’epoca di provenienza siracusana. Inoltre la fastosa descrizione degli edifici d’una tale colonia che ci da Polibio, sarebbe piuttosto da attribuire alla metropoli. Il fatto è però che le rovine affioranti ancor oggi su per il declivio della collina dove sorge il castello e dove allora sorgeva la città attestano indubbiamente che l’arte greca vi fiorì e ne fece un magnifico centro urbano. Ai prossimi scavi l’ultima parola.
Comunque l’impero di Siracusa nell’Adriatico non sopravvisse al suo fondatore, Dionigi il vecchio.
Alessio col resto dell’Illiria andò soggetta all’alterna vicenda del dominio ore dei re illiri residenti in Scutari, ora dei re macedoni.
Accennavamo alla mancanza di materiale numismatico siracusano dioniseo in questa regione; abbiamo però qualche pezzo più tardivo di Agatocle, e soprattutto, della moneta locale, forse autonoma, di epoca e d’arte macedonia. Vi predominano i simboli di Giove, la capra e il fulmine.
Una breve escursione su per il colle è quanto mai interessante, fra i magnifici basamenti di marmo bianco degli antichi edifici, fin su al castello veneziano.
Venezia difatti, che, per ragioni commerciali e strategiche, riteneva Alessio «l’occhio destro di Durazzo», appena fu padrona di questo grande emporio, si adoperò per poter acquistare anche la città del Drino, comprandola dai Dukagjini che scesi dalla vicina Kalimeti da forse due secoli vi avevano posto la capitale dei loro vasti feudi.
E difatti nel 1393 Alessio era veneziana e tale rimase ininterrottamente e fedelmente fino al 1479. Venezia la governò per mezzo di un provveditore, lasciando il governo comunale a un «voivoda degli uomini d’Alessio».
L’antico castello romano era già fin d’allora talmente mal ridotto da non potersi più parlare di restauro. Venezia gliene sostituì uno al posto dell’antica città, ed è quello che oggi ancora sussiste, rimaneggiato qua e là dai turchi.
Ma purtroppo, oltre alle mura di cinta, nessun monumento più ci attesta gli storici eventi che resero Alessio uno dei santuari della storia nazionale albanese: non la cattedrale di S. Nicolò sede episcopale già nel IV secolo. Ivi, ospiti di Venezia, si debbono essere radunati a parlamento i principi albanesi quando Skanderbeg nel 1443 ritornato in patria, li chiamò a formare una lega contro il turco e ne venne nominato capo. Ivi l’eroe, venuto a concertarvi un’ultima campagna d’accordo con i veneziani fu colpito da una tardiva infezione di malaria autunnale e ne fu condotto a morte nel gennaio del 1468. Il suo corpo giacque in questa cattedrale finché le ossa venerate non vennero disperse dagli invasori dopo solo undici anni.
La popolazione di Alessio, romanizzata già ai tempi di Livio tanto da costituire un «oppidum civium romanorum» rimase tiepidamente latina fino al secolo XV come Durazzo, Scutari, Dulcigno, Antivari e le città della Dalmazia: del linguaggio ivi usato, affine ma distinto dal veneto, abbiamo interessanti documentazioni nei «capitoli» o istanze presentate da quella comunità al Senato veneto.
Però anche la popolazione albanese del suburbio e del circondario gareggiò in fedeltà alla Serenissima con i latini della città: ancora nel 1571, mentre si preparava la battaglia di Lepanto, le popolazioni di questi dintorni, organizzate da qualcuno della famiglia dei Dukagjini, si preparavano a cacciare i turchi dal castello e a consegnarlo a Venezia, e l’avrebbero anche fatto se fossero stati sostenuti.
Dopo il ponte, passiamo sotto il rifatto ospizio dei PP: Francescani, una vecchia tradizione vuole che s. Francesco, tornando dall’Oriente, qui di passaggio si sia trattenuto fondando l’Ospizio e dando così origine al francescanesimo albanese. Certo i francescani cominciano ad apparire in Albania sin dai primi tempi.
Da Alessio a Scutari
Entriamo ora nella fertile e bella piana della Zadrima. Rivolgendo lo sguardo ad Alessio che abbiamo lasciata, possiamo nuovamente godere della vista di Lissos città e dell’Acrolissos. Le domina la maestosa montagna di Velia, classico nome che ricorda la Velia di Lucania. Quale relazione ci sarà tra le due?
Il primo paese che incontriamo è Balldreni, antico toponimo che significa «fronte di Drino», che difatti il Drino andiamo costeggiando. Ora è solo un toponimo; nel passato fu fiorente villaggio, feudo ambito dei Dukagjini in compenso dei terreni che venivan loro guasti dai turchi; la chiesetta che sorge sull’ultimo speron di colline è tra le antiche della regione, e dall’Ippen viene assegnata al secolo XIV; una lapidetta sull’abside all’esterno, ci attesta la devozione dei Dukagjini del ramo dei Perlati che ve la posero nel 1462, quando già da 59 anni godevano di quel feudo:
ANO.D. MCCCCLXII
MEMTO DNE FAMULUM
TVV PERLAFARUM CUM
OlbSVISAM
Ricordati, Signore, dei tuoi servi i Perlati con tutti i loro amici.
I loro amici di Balldreni con tutti i loro discendenti sono ora morti e le loro casette dirute sono sparse per la collina desolata: quel che non fecero i turchi, i «sangui» e la malaria in tre secoli, lo fece il colera al principio del secolo scorso, e la povera Balldreni con la sua chiesetta sta a guardare mesta lo sbocco della micidiale palude che marcisce fra le due file di colline pietrose.
Ora si costeggia la catena calcarea detta di Kakarriqi dal paesello che le sta ai piedi verso la metà: impressionante gruppo di bicocche di sasso, che qualche decennio fa, così campate a strapiombo sulla strada, davano il brivido ai passeggeri e alle carovane che vi passavano a cavallo. Era stata anch’essa un paesino di qualche importanza e feudo dei Dukagjini con Balldreni; la chiesetta è un po’ della stessa epoca e stesso tipo. Anche Kukli che vediamo addossata alla collina un po’ più in là del punto dove la strada se ne stacca ha avuto una più numerosa popolazione e un certo numero di piccoli feudatari sotto i Veneziani.
Procedendo adesso in pianura ci si fa incontro a Barbullushi, il paese, diremmo noi, di S. Barbara. Barbarossi dicevano i Veneziani, benché di S. Barbara non ci sia ricordo. Invece su una minuscola pendice a destra della strada prima di abbandonare del tutto il paese, vediamo restaurata una chiesuola, piccina di mole ma gloriosa di gran memorie.
All’epoca veneziana Barbullushi era fiorentissima di numerosa popolazione e di molti di quei piccoli feudatari detti «proniari» che in compenso delle terre «di comun» che godevano in concessione servivano in guerra coi loro uomini e i cavalli da buoni stradisti; allora la chiesa era servita da numeroso clero costituito in capitolo, con a capo un arciprete col titolo di Crosignor (forse qualche cosa come il «monsignore») dotato di ricche rendite e di preziose esenzioni.
Più tardi, sotto il turco, escluso il vescovo di Scutari dalla sua residenza in città, questa chiesina che per coincidenza era dedicata a S. Stefano come la cattedrale, la sostituì e fu arricchita di indulgenze e privilegi; qui risiedette il grande vescovo Bogdani, il più dotto degli scrittori albanesi del secolo XVII, ma fu l’ultimo perché dovette fuggirne perseguitato dai beg e agà mussulmani che avevano sostituito i proniari veneziani.
Passando fra alcune leggere collinette, sbocchiamo in altro settore della pianura del Drin, e vediamo di fronte una bella collina verdeggiante ai cui piedi spicca una bella chiesa: è Bushati ultimo termine a cui si spingeva la vasta estensione delle vigne dei signori scutarini nel medio evo; ciò le valeva anche il nome di Bulchia (campagna) grande. Ivi si vuole siasi rifugiato un rampollo dei Cernovichi signori di Zeta e Montenegro, dando origine a una famiglia che nel secolo XVIII, impadronitasi di Scutari e svincolatasi quasi del tutto dal gioco di Stambul, si fece un posto nella storia appunto come Bustatli.
Con tutto il fasto e le comodità che richiedevano le usanze turche del tempo, e che la ricchezza commerciale di Scutari allora permetteva, questa specie di culla dinastica dei vesir di Scutari divenne un vero luogo di piacere che avrebbe voluto gareggiare nel suo piccolo con le ville nei dintorni di Stambul; giardini e bagni, frutteti e vigne e tenute di caccia, tutto rovinò e scomparve con la caduta dei Bushatli, lasciando solo un ricordo nelle leggende e nella toponomastica.
Il gruppo di basse colline verso cui ci avviamo dopo Bushati risponde al nome di Beltoja, la Blatomia medioevale.
E’ una delle posizioni strategiche che ebbero la maggiore importanza in tutti gli assedi di Scutari. Nel 1478, alla sommità di questi colli piantava le tende Maometto II e di là dominava con lo sguardo l’immenso suo accampamento sparso in tutta la Zadrima fino alla Drinassa che scorre ai piedi del castello di Scutari; su questa cima, allora alberata e amena va inquadrata la grande tela del Veronese che sul soffitto del salone del Senato in Palazzo Ducale ricorda a Venezia la fedeltà scutarina.
Dentro per le vallette che solcano i fianchi della collina fra Beltoja e Berditza nella notte del 9 febbraio 1813 stavano in agguato i turchi e i dibrani di Esad pascià Toptani che sostenevano l’assedio di Scutari; i serbi, mossi da Bushati in aiuto dei montenegrini, venivano con la solita fiducia boriosa, quando, impigliatisi ai reticolati, cominciarono a sentire la fitta grandine delle mitragliatrici appostate, la fucileria, i cannoncini micidiali; ma, ostinati come sempre, tentavano e ritentavano, quando dalla loro e nostra destra, cominciarono a sentirsi avviluppati dovettero ceder lasciando poco più di 250 prigionieri e il resto, un migliaio, di morti; la collina brulla e giallastra che sfioriamo alla nostra sinistra è tutto un cimitero.
L’articolo di Padre Giuseppe Valentini S.J. è stato pubblicato nel N. 4 – Anno II di DRINI – Bollettino mensile del Turismo albanese – Tirana, Domenica 1 giugno 1941.
Le fotografie originali provengono dall’Archivio di Franco Tagliarini