“Oltre la metà del territorio del mio paese era stato attribuito alla Serbia, al Montenegro ed alla Grecia. Le città più fiorenti e le regioni più produttive del paese erano state strappate via. L’Albania era stata ridotta quasi esclusivamente alle zone più aride e più rocciose.
Così, gettati di nuovo in un’accorata depressione e con la visione così oscurata del futuro del nostro paese rinato, fummo confortati sentendoci dire che dovevamo sacrificarci per gli interessi generali dell’Europa. Rassegnato, ma non disperato, ritornai in Albania sostenuto soltanto dal miraggio che più favorevoli condizioni avrebbero potuto nell’avvenire consentire all’Albania di realizzare i suoi legittimi desideri.”
E’ con queste parole che Ismail Qemali nelle sue “Memorie” descrive gli effetti che la “Conferenza degli Ambasciatori”, firmata il 2 gennaio 1913, avrà sull’Albania. Rientrato di gran fretta a Valona, il vecchio saggio proverà a indirizzare una lettera alle Grandi Potenze, scrivendo parole che oggi appaiono profetiche.
“È un fatto storicamente accertato che il popolo Albanese costituisce un gruppo etnico e compatto, omogeneo e tra i più importanti della penisola balcanica.
La sua origine e il suo linguaggio, le sue usanze e il suo carattere si distinguono totalmente dalle razze limitrofe. Detto questo, il popolo albanese richiede per il suo Paese i suoi confini naturali, imposti sia da condizioni etniche che dal suo diritto di primo residente.”
Quello che si legge tra le righe, è un avviso neanche tanto implicito che mette in guardia le Grandi Potenze dagli effetti che una simile spartizione potrebbe avere. Nessuno gli darà ascolto: quello che succede a Londra ricorda più un’accozzaglia di pirati che si dividono un bottino che uomini di Stato illuminati e democratici.
L’Albania pagherà un prezzo immenso, metà del paese sarà “regalato” alla Serbia, al Montenegro e alla Grecia. Di fatto, le Grandi Potenze saranno anche pronte a chiudere un occhio quando si scatenerà l’inevitabile genocidio ai danni di quella popolazione albanese la cui unica colpa è quella di esistere. Un errore che siamo costretti a subire oggi come cent’anni fa, e che continua a tormentare il sogno di un Europa unita e pacifica anche nella stretta attualità odierna.
Difatti ancora oggi, invece di usare le minoranze linguistiche come una ricchezza che possa arricchire il paese ospitante – come per esempio fanno gli arbëresh o le altre minoranza in Italia che contribuiscono alla vita del paese senza per questo rinunciare alla loro identità – tanti paesi balcanici continuano a considerare le minoranze albanesi come un errore da eliminare, se non da sterminare, negandone diritti, lingua e cultura, perfezionando quindi un percorso da “genocidio soft” che mira ad uccidere non più il corpo ma i tratti distintivi di quella etnia.
Ad oggi, il massacro di Londra è la cicatrice più visibile nel corpo dell’Albania, l’evento che, forse anche più della seconda guerra mondiale, ha segnato e continua a segnare il percorso della nazione albanese nel mondo. Ed è proprio per questa forte connessione tra passato e futuro, che crediamo sia importante ricordare tale giorno proponendo incontri e dibattiti.
Non è per un desiderio di vendetta o, ancora peggio, per alimentare una voglia di scontro o inutili lamentele quindi, che vogliamo fortemente celebrare tale giorno, ma perché crediamo che costruire e fomentare una identità nazionale sia l’unico modo, oggi come allora, di rendere giustizia alle parole di Ismail Bey Qemali e di essere degni cittadini del nostro paese.
Più di 35 associazioni albanesi in Italia si uniscono in un convegno
Albania 100 anni di Nazione divisa – Il Trattato di Londra, 1913
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