Siamo ormai nella valle del Matja, al suo sbocco verso la piana e il mare. E’ una delle più temibili vie d’invasione che fin dai remoti tempi minacciavano Durazzo, Alessio e tutta l’Albania centrale.Di qua si ricorda che scese Filippo V di Macedonia mossosi ad occupare il baluardo illirico-romano di Alessio, di qua vedemmo che scese l’esercito turco guidato dal traditore Hamza, nipote di Skanderbeg.
Il paese, nella sua toponomastica, sembra conservare qualche ricordo in «Bulgri», la regione montagnosa che vediamo di fronte a noi sulla destra del fiume: forse, passando di là i Bulgari che si spinsero fino a Durazzo, vi lasciarono una colonia.
Guardando in quella direzione, al di là del vastissimo greto, contempliamo la serie delle ultime pendici che accompagnano il Matja fino al mare. Alla sinistra di chi guarda la più alta di esse (riconoscibile dalla nuova strada serpeggiante che ne taglia la costa) a un certo punto della sella si distingue la chiesa di Bëdhana (toponimo riferito qua e là con le grafie inesatte di Pedana, Pezana, Pilana, Pdhona) è una costruzioncina medioevale che per i resti dei suoi affreschi merita d’essere visitata dall’amatore d’arte bizantina.
Sull’ultimo colle, brullo e rossastro, la solita tradizione popolare che riferisce anche qui nel passato esserci state tante case «da poter passare per vasto tratto il micio di tetto in tetto», ci mette sull’attenti non si tratti forse d’una antica città o almeno castello. Anche la sua stessa posizione, come ultimo contrafforte a custodia d’uno sbocco di valle in pianura, ci ricorda appunto l’antica consuetudine locale di sfruttare tali posizioni per la costruzione di città-castelli.
E di fatto ci narra Livio che nell’anno 168 a.
C., Gentio, ultimo re illirico, messosi in difesa contro i Romani e spedito suo fratello ad occupare la regione fin verso Caravantis (Kurbini) alla sinistra del Matja, per sostenere la spedizione, tentò di appostarsi ad una città, cinque miglia lontana da Alessio, chiamata Bassania, mentre la sua flotta teneva il mare e la costa in soggezione. Ma i bassanii erano alleati dei Romani, (come del resto tutta la popolazione illirica) e non vedevano troppo di buon occhio il re beone e fratricida, mentre non avevano cha da lodarsi del giusto governo romano; perciò chiusero le porte in faccia a lui che veniva con belle promesse e s’accinsero a sostenerne l’assedio.
Il pretore Anicio, sicuro di loro, non s’affrettò a portare diretto aiuto ma diede addosso alla flotta genziana, sbarazzando così la costa fra la Boiana e la Voiussa dalla continua minaccia di sbarchi e saccheggi, e costringendo Gentio, rimasto scoperto al fianco verso il mare, a ritirarsi precipitosamente a Scutari. Così Bassania rimase libera.
Si domanda ora dove fosse l’antica Bassania. Vecchi scrittori, tratti in inganno da un’apparente somiglianza di nomi, cedettero di ravvisarla in Elbasan.
Ma, oltre al sapersi che questa città è turca di nome come di costruzione e che la città che ne occupava il posto in epoca romana si chiamava non Bassania ma Scampa, da Alessio a Bassania si misuravano cinque miglia, mentre fino a Elbasan la distanza è ben maggiore; né si comprende come avrebbe potuto Gentio avventurarsi tanto lontano con pericolo d’essere tagliato fuori per opera del presidio romano di Durazzo, mentre suo fratello – da lui spinto innanzi – si sarebbe dovuto accontentare di giungere fino a Kurbini.
E poi quale relazione con le operazioni navali potrebbe avere una città tanto all’interno come Elbasan?. Per tali ragioni il Patsch (e già altri prima di lui) opinavano per Bëdhana, la cui posizione corrisponde a tutti i dati. Osservava inoltre F. Andrea Mjedja che anche foneticamente i due toponimi si corrispondono: ridotta alla primitiva forma «Ba» la prima sillaba ora indebolitasi in «Bë» con e muta secondo il vezzo moderno, rimane la differenza «ssadha»; ma è noto che il latino, povero di segni come di suoni, riproduceva alla meno peggio i nomi stranieri col suo alfabeto, e in particolare si sa che per riprodurre un suono gallico affine all’attuale «dh» albanese, ricorreva all’esse. Ecco come Bassania non è altro che una trascrizione latina di Badiana.
Siamo giunti al bello e lungo ponte Vittorio Emanuele III sul Matja, fatto costruire anni fa dalla Società per la Valorizzazione Economica dell’Albania. Oltrepassatolo, la strada si biforca; con un’ora di tempo disponibile, prendendo il ramo di destra che va su per la valle del Matja e poi per quella del Fandi suo affluente, possiamo fare una escursione fino a Robigu, antico monastero dell’Ascensione che, come altri santuari dello stesso nome in Albania, sta appollaiato in cima a un colle isolato e acuminato in modo caratteristico. Accedendovi, si ha l’impressione d’accostarsi a un fiero castelluccio medioevale ancora in efficienza. La chiesetta non grande, e a varie riprese manomessa, conserva ancora nei belli affreschi dell’abside la parte centrale e più significativa di quello che doveva essere un grande poema artistico dell’Eucarestia. Al centro il Redentore e intorno, in sapiente disposizione aderente all’architettura, la Madonna, San Giovanni Battista, le teorie degli Apostoli che vengono devoti all’invito «accipite et manducate, accipite et bibite», non mancano altri santi e l’abate costruttore della chiesa. Il fatto delle scritture latine e non indubbi segni stilistici danno a vedere che l’opera apparentemente bizantina, è di mano d’artista occidentale, uno di quelli che si diffondevano dalla Dalmazia latina molto addentro nell’Albania. Comunemente si afferma che la distruzione della chiesa precedente avvenuta l’anno 1267 per mano di Andrea Vrana, il dominio di re Manfredi in Durazzo e poi quello di Urosio.
Dall’alto dello spianato la vista spazia largamente nella valle come da un vertiginoso osservatorio aereo presentando un misto suggestivo di grandioso, di bello orrido, di tranquilla pace negli oliveti e nei campi.
Ritornati sulla nostra via, oltrepassata la sella di Bëdhana e discesi per paurosi zigzag di nuovo in piano, si va costeggiando la cosiddetta Montagna d’Alessio, sistema di colline carsiche, molto tormentate e pittoresche con i loro ulivi, i ciuffi di vegetazione rupestre verdescura, le casette solitarie di pietra. E’ la sede delle Quattro Bandiere della Tribù di Zhuba, una forte e fiera tribù che da qualche secolo è indissolubilmente legata con le Cinque Bandiere di Mirdita. Se è vero che la casa dei Gjomàrkaj sia discendente dei Dukagijni, il fatto si potrebbe spiegare ricordando come appunto in Alessio i Dukagjini avevano il loro centro principale fino alla fine del secolo XIV.
La strada che noi facciamo dev’essere stata seguita da Filippo V di Macedonia, quando nel 213 a.
C., con un viaggio di due giorni, «superate la fauci dell’Artaxano (Matja)», venne ad occupare Alessio.
La drammatica descrizione della sua impresa, quale si trova in Polibio, ci permetterà di ricostruire gli avvenimenti sul posto, ed anche a meglio determinare gli antichi toponimi.
Già da qualche punto della strada lungo la «pianura di Tirana» e l’Arben, ed ora tanto più da vicino, lo sguardo del viaggiatore è attirato da un alto colle isolato a pan di zucchero che svetta a settentrione; anche questo oggi porta il nome del Redentore ossia dell’Ascensione. Ora a fianco di lui, sulla nostra sinistra, scorgiamo anche una altra collina, notevolmente più bassa, dalla cima piatta coronata di mura. Polibio ci permetterà, come vedremo, di asserire senz’altro che la collina bassa era la colonia murata siracusana di Lissos (ora Alessio) fondata da Dionigi il Vecchio mentre sul colle dell’Ascensione, ora coronato da una «tyrbe» o marabutto venne eretta l’Acropoli, Acrolissos. Solo molti secoli dopo l’Acrolissos venne definitivamente abbandonata, quando i Veneziani le trovarono ormai troppo in cattivo stato per
ricostruirla, ed eressero o rinforzarono il castello a coronamento della bassa collina della città.
Ai tempi di Filippo i Romani avevano affidata la città murata e l’Acropoli alla popolazione illirica fedelissima, benché forse non ancora sostenuta da una colonia romana, e in fama di gente bellicosa.
Il re macedone, avvicinandosi come noi facciamo, ed osservando l’elevata ed inaccessibile posizione dell’Acropoli, disperò senz’altro di poterla mai acquistare per forza, si spinse innanzi a riconoscere il terreno.
Tra l’Acropoli e la città s’avvalla leggermente una non angusta sella, che a quell’epoca era coperta di boscaglia. Qui si fermò l’attenzione di Filippo che vi imperniò la sua azione.
Dopo una prima scaramuccia d’assaggio e una giornata di riposo, prima che spuntasse l’alba, mandò a coprirsi all’ombra della boscaglia sulla sella, il grosso del suo esercito bene istruito sul da farsi.
Fattosi giorno, egli girò dall’altro lato la collina della città verso il Drino, e spinse all’assalto un non forte gruppo di armati leggeri a tentare i difensori, numerosissimi, perché vi si erano raccolti volontari Illiri anche da lontano. Dopo valorosa scaramuccia, gli assalitori si ritirano presso i loro compagni in piano e, inseguiti dagli Illiri, tutti insieme fingono una disordinata fuga verso il mare.
I difensori dell’Acropoli, – pochi, perché il luogo si difendeva da sé – osservando dall’alto tale spettacolo non stettero alle mosse e, prima tentennando ai richiami del dovere, poi di corsa, attratti dalla speranza di preda, abbandonano la guardia e si gettano giù all’inseguimento.
Tanto si attendeva Filippo, buon conoscitore di quest’antico e brutto vizio del soldato il lirico che tante sventure causò alla nazione: dopo un primo e magnifico impeto vittorioso, darsi a corpo morto al bottino.
Il grosso dell’esercito filippino uscì allora dal bosco, scalò il colle dell’Acropoli, e disfattosi dei pochi rimastivi – se pur ce n’erano – l’occupò stabilmente, circondandola di buoni posti di guardia.
A un dato segno i fuggenti si rivolgono e ricacciano gli alessansiensi che son costretti a tornare in città dove si asserragliano. Altrettanto vorrebbero fare quelli dell’Acropoli al loro posto, ma appena presa la salita, incappano nei posti di guardia che tagliano loro la via. L’Acropoli era perduta!
L’indomani, dopo fiero assalto, anche la città era nelle mani di Filippo.
Come si vede, se l’Acropoli, come alcuni credono, fosse stata al posto dell’attuale castello, tutta questa strategia mancherebbe di fondamento topografico, perché tra questo colle e il fiume non c’è spazio alcuno. Una difficoltà però si trova ancora: avendo varie volte tentato l’ispezione girando rasente e intorno al cocuzzolo dell’Acropoli in aereo, non si poté scorgervi traccie di rovine, come altri asseriscono di aver potuto notarvi andandovi di persona; vero è che anche altre antiche costruzioni erette con la stessa pietra calcare del monte in altre località, una volta diroccate, si sono confuse con la montagna in modo irriconoscibile. Invece sembra di poter riconoscere un appariscente tracciato di strada forse romana su per la costa, aperto con grandi scarpature a zigzag nella roccia.
Guardando ora invece verso il mare, osserviamo una vasta piana paludosa, formata evidentemente dal delta del Drino. Fino a tutto il Medioevo, una buona parte di essa deve essere stata compresa dai due rami con i quali il fiume sboccava nel golfo mentre ora è tutto un dedalo; e lo sta a dimostrare il toponimo, fin d’allora attestato e tuttora sussistente di Isola d’Alessio (Ishulli i Lezhes). Quando nel 1479 i Veneziani dovettero cedere la città col castello incendiato ai Turchi, si riserbarono come ultimo piede a terra appunto quest’Isola, già precedentemente preparata nonostante la malaria, e fortificata con trincee, terrapieni e gabbioni; così, contro i cannoni, serviva meglio che con le mura di pietra, ed è da calcolare che sia uno dei primi passi della nuova arte di fortificazione contro l’artiglieria basato su materiale da costruzione molle, mentre l’altro basato sul profilo pentagonale del bastione data da una trentina d’anni prima, e tuttavia i Veneziani che ben le conoscevano, non si sa perché, non lo posero in queste regioni.
Il Sultano insisteva ad ogni occasione per escluderli anche dall’Isola che gli sembrava una spina piantata sul fianco, ma essi facevano precisamente orecchio da mercante perché, oltre all’importanza strategica dell’approdo vi aveva cominciato a fiorire un buon mercato: con Antivari e Dulcigno da una parte e Durazzo dall’altra, potevano dire d’avere ancora il controllo commerciale dell’alta e media Albania, dopo averne perduto il dominio politico.
Le trattative andarono a lungo per anni e anni. Nel 1504 si dovette mandare a Costantinopoli il segretario Zorzi Negro con l’istruzione di ceder l’isola quando proprio non si potesse più resistere, il che si verificò, ma di ritorno, Zorzi provvidamente si ammalò e morì a Corfù; non ci voleva di meglio per il Senato, che, pretestando la mancanza di relazione del suo segretario sulle condizioni della consegna, poté procrastinare fino al 1506, quando dopo lunghe e drammatiche discussioni protrattesi per giorni e settimane, dovette finalmente ….procrastinare di nuovo.
Non si sa resistere alla tentazione di riportar qui l’ingenua, realistica e commovente relazione che ne fa nel suo diario il buon mercante veneto Girolamo Priuli: «Il Signor Turcho veramente non restava cum grande instantia solecitar il Statto Veneto, che l’voleva al tutto aver quella citade de Alessio, chussi chiamata, in Albania, perché se diceva che in la conclusione dela pace li era stata concessa et he uno loco de pochissimo momento, et, anchora che se chiamava citade, tamen hera di pochissimo momento et locho quassi senza persone et si poteva chiamare deshabitatto. Et, anchora che di sopra io abbia scripto di questa difficultade de rendere questo locho al Sig. Turcho, che l’fusse nel Senato disputato assai, tamen, al tutto volendo il Sig. Turcho tantto grande signor averllo, bisognava ali Padri Veneti, inclinato capite, restituirlo, perché le forze venete non potevano resistere ala potentia grande turchesca. Tamen questi Padri Veneti, quali sempre desiderando la indusia et prolungar piui che potevanno retiravano la cossa in longum et per simil caussa non mandavanno il Baylo a Costantinopoli, perché non sapevanno con quale modo potessenno mandare il Baylo a Costantinopoli et che l’fusse accepto al Gran Signore, non volendo contentarlo de darli questo locho de Alessio, et tamen per forza lo convenivanno darlo al suo dispecto. Donde che iterum in el Conseglio di Pregadi furonno sopra grande disputazione in questa materia. Tandem, post multa, fo deliberato de differire et prolungare piui che se poteva. Et per questa cauxa ettiam, non expedivanno lo Baylo a Costantinopoli che l’saria al proposito per poter intendere i andamenti et progressi di quello Signore».
In realtà il Sultano con la sua insistenza dimostrava di attribuire all’Isola di Alessio molto maggiore importanza che non fingesse, e da parte veneta il Provveditore Bon giustifica le tergiversazioni del Senato col narrarci che «persa questa insula, è persa tuta la riviera che più non se dié sperar meter el pié in Albania».
Finalmente cedettero. e diedero ordine alla ritirata, ordinando d’ asportare con le artiglierie anche i fedeli abitanti che vennero degnamente collocati in territorio veneto come i loro fratelli di Scutari.
Da allora in poi nell’Isola desolata i fossi si riempirono, i terrapieni tornarono in melma, e nessuna traccia più ricorda al pescatore e al cacciatore di anitre l’ultimo baluardo di Venezia sulle rive del Drino.
L’articolo di Padre Giuseppe Valentini S.
J. è stato pubblicato nel N. 3 – Anno II di DRINI – Bollettino mensile del Turismo albanese – Tirana, Giovedì 1 maggio 1941
Le fotografie originali provengono dall’Archivio di Franco Tagliarini