Nella Serenissima Repubblica di Venezia, i primi movimenti migratori dall’Est Europeo cominciano nel XIV secolo. Fra i gruppi più numerosi, gli Albanesi, seguiti da Dalmati e Greci. Arrivavano via mare, su navi veneziane; quando ne avevano i mezzi sufficienti, pagavano il viaggio di tasca propria, altrimenti si facevano ingaggiare come marinai per tutta la durata della traversata. Tra le città di provenienza, in primo luogo Durazzo, e poi Scutari, Alessio (Lezha), Antivari.
Una preziosa documentazione delle loro attività, e della politica esercitata da Venezia nei confronti delle comunità immigrate è raccolta in Le minoranze orientali a Venezia 1300 – 1510 di Brunehilde Imhaus (Roma, Il Veltro Editrice, 1997).
Nato da una tesi di dottorato all’Università di Tolosa, il libro della Imhaus, che ha svolto le sue ricerche negli Archivi di Stato di Venezia, è stato meritoriamente tradotto dal francese, offrendo così ai lettori italiani una ricca fonte di informazioni, quasi 600 pagine per due secoli di storia dell’immigrazione a Venezia dalla sponda orientale dell’Adriatico.
Fra le cause che spingevano gli Albanesi a lasciare i luoghi d’origine c’era in primo luogo l’avanzata turca. Proprio per far fronte alla minaccia ottomana, nel 1387 il principe Carlo Thopia, della potente dinastia feudale albanese, aveva ottenuto dal Senato veneziano una “galeota”, un’agile e veloce nave da guerra, per difendere Durazzo, a patto che per nessun motivo venisse utilizzata come nave corsara.
Nel 1479, poco dopo la presa di Scutari, un numero cospicuo di Albanesi cercarono rifugio a Venezia. Dovevano essere in condizioni disperate, se si poté scrivere che vi era in città “in conspectu et oculis omnium…tanta albanensium turba fame perentium” 1). Per far fronte all’emergenza, il Senato emanò un apposito decreto che obbligava i padroni delle galee veneziane ad assumerne un certo numero sulle loro navi.
Ma l’espansionismo ottomano ai danni del territorio albanese non fu l’unica, e forse, stando a quanto sostiene la studiosa, neanche la principale causa dei movimenti migratori dall’Albania alle coste italiane fra il 1300 e il 1500. Bisogna infatti considerare che le fiorenti attività commerciali veneziane nei porti del Mediterraneo richiedevano come contropartita, quantomeno per opportunità politica, che gli abitanti delle “colonie commerciali” veneziane intrecciassero attività economiche con la Serenissima, o vi si trasferissero in cerca di lavoro, dunque niente di più facile che la città fosse meta di emigrazione per chi cercasse condizioni di vita migliori. Come l’autrice avverte nella premessa metodologica, la sua ricerca non registra i nomi di personaggi illustri, ambasciatori, dignitari religiosi o laici che avessero soggiornato a Venezia per un certo periodo, ma solo quelli di coloro che vi si fossero effettivamente trasferiti per lavorarvi.
A Venezia, gli Albanesi esercitavano per lo più attività di fornai, marinai, mercanti di stoffe, corrieri, lavoro quest’ultimo alquanto pericoloso, visto che spesso i messaggi dovevano essere recapitati di notte. Fra i nomi dei “postini” veneziani dell’epoca, leggiamo quelli di Pietro di Scutari, Nicola di Durachio, Andrea d’Alessio, Marino Albanensis.
A proposito di nomi e relative provenienze geografiche, troviamo una sorpresa particolarmente degna di nota allorché ci imbattiamo in un certo Petrus “de Tirana”, il che dimostrerebbe che, già nel Quattrocento, Tirana era già abbastanza nota e forse sufficientemente sviluppata perché il suo nome potesse essere utilizzato come indicativo di provenienza. Fatto ancor più rilevante, se si considera che, nelle descrizioni dei viaggiatori europei del primo Ottocento, e nelle cronache storiografiche in genere, Tirana viene indicata come città di fondazione turca, “dove intorno al 1600 non c’erano che una foresta e alcune misere capanne” 2).
Spesso la vita notturna veneziana era animata da “ribellioni armate durante le quali i marinai albanesi si sono particolarmente distinti” (citazione testuale). Fra gli episodi più coloriti, spicca quello dell’ammutinamento della ciurma di una galea mercantile durante uno scalo a Londra, rivolta capeggiata dal marinaio albanese Paolo d’Alessio. Motivo del contendere, la scarsità della paga corrisposta ai rematori. Di per sé, sarebbe stato uno degli innumerevoli litigi che scoppiavano tra marinai e armatori per chiedere aumenti di salario. Se non che, Paolo dà al conflitto una svolta del tutto inattesa, quando, nella sorpresa generale, si dichiara “re d’Albania”, nominando suoi capitani alcuni dei più fedeli compagni di ciurma. Alle ripetute richieste di tornare a bordo, i rivoltosi rispondono indispettiti, mandando a dire che Londra è molto più bella e piacevole di Venezia. Ricondotti a più miti consigli, i ribelli vengono riportati a Venezia, dove Paolo viene fatto sfilare da piazza San Marco a Rialto con una corona di carta sulla testa, e fustigato davanti alla porta del carcere, dove resta recluso per cinque anni.
Ma qual era la politica di integrazione, se tale può definirsi a quell’epoca, attuata dalla Repubblica di Venezia nei confronti degli immigrati? Dal suo ponderoso lavoro di scavo fra i documenti d’archivio, Brunehilde Imhaus ha ricavato un quadro d’insieme su cui ci sarebbe molto da riflettere.
Premesso che non sarebbe realistico, né corretto dal punto di vista storico, enfatizzare i tratti positivi della politica veneziana nei confronti del “forestiero” per lanciarsi in un elogio del buon tempo andato e intanto recriminare sul presente, e quindi senza passare sotto silenzio i periodi di xenofobia conosciuti dalla Serenissima nella sua storia (si veda ad esempio un decreto del 1192, che costringeva qualsiasi straniero residente a Venezia da meno di due anni ad andarsene entro quattro mesi), appare tuttavia innegabile che la città dei Dogi applicasse provvedimenti legislativi e misure sociali che potrebbero oggi essere presi a modello.
A partire, ad esempio, dal diritto di cittadinanza, tutt’altro che inarrivabile, e sancito da norme chiare e ben definite. Per diventare cittadino veneziano, bisognava: essere residenti da un certo numero di anni, variabile a seconda dei periodi; aver combattuto nell’esercito della città; aver pagato le imposte; non essere mai stati iscritti nei registri di polizia. “Diventare Veneziano era un atto solenne la cui importanza risultava dalla formula del giuramento pronunciato sul Vangelo. Il nuovo cittadino giurava obbedienza al Doge, prometteva di astenersi da qualsiasi atto che potesse intaccare l’integrità e l’onore dello Stato, e si impegnava a non partecipare a nessuna congiura.”
Se poi si considera che a metà del Quattrocento le comunità albanesi, dalmate e greche residenti a Venezia avevano ottenuto l’autorizzazione per fondare proprie scuole o “confraternite”, che avevano la funzione di centri di aggregazione, luoghi di assistenza morale e caritativa oltre che di apprendimento di arti e mestieri, si può ben comprendere la valutazione dell’autrice che definisce la Repubblica dei Dogi “una società multiculturale ante litteram”.
E ancor più la sua conclusione, allorché afferma: “attraverso questo afflusso di immigrati, continuamente rinnovato e continuamente assorbito, chi potrà mai dire se non ci fu, per il grande arricchimento della civiltà veneziana, più che un’assimilazione degli immigrati da parte della Serenissima, una specie di ‘sposalizio’, altrettanto benefico e felice di quello, consacrato ogni anno dal Doge, con quel Mare da cui nasce la fortuna della Città?”.
1. “un gran numero di Albanesi, che morivano di fame sotto gli occhi di tutti”.
2. DEGRAND, Jules Alexandre Théodore, Souvenirs de la Haute Albanie, Paris, Welter, 1901, p. 205, (traduzione personale).