La prima volta che mi recai in Albania fu con l’ambasciatore francese Pierre Sebillaud in auto da Belgrado, dove prestavo servizio, a Tirana.
Il mio illustre Amico era accreditato in entrambi i paesi ma alla frontiera dovemmo lasciare l’auto juogoslava per trasferirci sull’auto di servizio dell’ambasciata francese a Tirana. Durante il percorso fummo costantemente seguiti dai nostri angeli custodi albanesi che non ci lasciarono mai neanche quando Pierre obbligava l’autista albanese a delle brevi deviazioni, non consentite, con la scusa di impellenti bisogni.
I nostri controllori si avvicinavano immediatamente ed in perfetto francese ci ricordavano che non dovevamo lasciare il percorso indicatoci. Dal confine a Tirana incontrammo non più di una decina di auto e qualche camion, ma Pierre immancabilmente rispondeva che non poteva esporsi agli sguardi imbarazzanti dei passanti.
Avevo eccezionalmente avuto un visto in quanto accompagnatore-collaboratore dell’ambasciatore francese, infatti non era consentito ai diplomatici italiani di entrare in terra albanese dal confine jugoslavo.
Trovai una città ordinata e pulita ma con una popolazione che mi evitava e che dava l’impressione di vivere nel passato. Mai visti in vita mia tanti panama e vestiti di lino sdruciti ma impeccabili anche se la maggior parte della popolazione che incrociavo appariva molto dismessa e con abiti molto poveri.
La Sigurimi, la potente polizia politica, era continuamente alle mie costole causando cambi di direzione a quanti incrociavo nel mio cammino per timore, mi spiegò poi Pierre, di essere sottoposti ad interrogatori sempre poco piacevoli. Vi era tutta una zona centrale, quella costruita alla fine degli anni Trenta dagli architetti dell’Italia fascista per i grandi commis d’état, che era preclusa e guardata a vista da guardie in borghese: era il Bloc dove viveva Enver e la nomenclatura del Partito. Vi erano pochissime auto in circolazione, tutte chiaramente dei papaveri del regime, biciclette, molti pedoni e qualche carretto trainato da cavalli. Il mezzo di trasporto più diffuso erano chiaramente i piedi.
La seconda volta che avrei dovuto recarmi a Tirana fu subito dopo la morte di Enver Hoxha nel 1985 quando i cinque fratelli Popa si rifugiarono nell’ambasciata italiana causando un grave trauma alle relazioni italo-albanesi.
Il capo del governo Andreotti decise di mandarmi nel Paese delle Aquile per tentare di trovare una qualche via di uscita al muro contro muro che si era creato: richiesta perentoria di restituire i cinque fratelli e rifiuto altrettanto netto da parte di Roma. Il visto d’ingresso non mi fu mai rifiutato ma neanche concesso. Dopo qualche mese rinunciammo alla mia missione.
Cinque anni più tardi, dopo la caduta del muro di Berlino e degli eventi che seguirono, il governo di Ramiz Alia, sospinto anche dal malcontento crescente soprattutto degli studenti, cercò di rimuovere il conflitto con l’Italia ed allegerire in qualche modo la pressione concedendo il trasferimento dei Popa. Fu questo probabilmente un segnale per quanti ambivano lasciare l’Albania, ciò che il governo schipetaro aveva sempre temuto.
L’ambasciata italiana si trovò ad ospitare in pochi giorni quasi un migliaio di albanesi penetrati nel perimetro extra-territoriale lasciandoci in più casi la libertà perché catturati dalla polizia e in alcuni casi rimanendo infilzati sulle punte delle lance delle alte inferiate che proteggevano l’ambasciata. In breve numerosi albanesi si rifugiarono anche nelle altre sedi diplomatiche, in particolare in quella tedesca e francese. Gli aguzzini del regime constatorono che il rilascio dei Popa aveva costituito l’innesco di una bomba ad orologeria.
La mia terza destinazione Albania fu con l’operazione Pellicano voluta dal Presidente della repubblica, Francesco Cossiga, con cui collaborai attivamente e da cui nacque, mio malgrado essendo uno specialista della diplomazia multilaterale, l’ incarico di Capo missione a Tirana.
Gli anni che seguirono furono estremamente impegnativi e pesanti ma debbo riconoscere che, sotto il profilo professionale ed umano, sono stati i più coinvolgenti e ricchi di esperienza della mia vita. Il periodo più duro fu l’ultimo anno della mia missione: dal fallimento delle elezioni del maggio-giugno 1996 all’esplosione delle cosiddette piramidi finanziarie che le parti politiche alimentarono, consciamente ed inconsciamente, con il continuo aumento dei tassi d’interesse delle piramidi di riferimento. La caduta delle Piramidi all’inizio del 1997 coagulò il malcontento e la rabbia di chi aveva perduto tutto in un inizio di guerra civile che fu bloccato dall’azione ferma e determinante della comunità internazionale con l’Italia affiancata dall’Europa, Unione Europea e OSCE, e con l’appoggio deciso degli USA.
Come racconta Sébastien Vilmot nel suo libro, l’Albania sta affrontando con determinazione il lungo cammino che la condurrà nell’Unione Europea attraverso la progressiva modernizzazione e democratizzazione del paese.
Il libro L’Albanie, la solitude d’un destin è un’eccellente sintetica illustrazione di che cosa sia stata la patria di Skanderbeg, con brevi ma significativi accenni dall’epoca illirica all’impero romano e Bisanzio, da Venezia all’ indipendenza dall’impero ottomano, fino alla descrizione assai efficace dell’avvento del comunismo, della dittatura di Enver Hoxha e il ritorno nella famiglia europea.
Per chi vuole conoscere e capire il paese uscito dall’oblio della nebbia che lo ha nascosto per circa mezzo secolo, non c’è modo migliore che leggere le appassionanti ed efficaci pagine regalateci da Sébastien Vilmot.
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